di Massimo Costa
L’esplosione del malcontento giunge quasi inaspettata la sera del 30 marzo 1282 (con il computo orario di allora, calcolata già come 31 marzo) alla Chiesa di S. Spirito, poco fuori Palermo, oggi sede del più grande cimitero cittadino, allora parco utilizzato per gite fuori porta dei palermitani. Leggenda vuole che un soldato francese, di nome Droetto, avesse cercato di frugare nel seno di una giovane signora palermitana, con il pretesto di controllare se questa nascondesse armi. La reazione del marito fu subitanea, trafiggendo l’insolente con un colpo di pugnale. All’urlo “Morte ai francesi!” i presenti, come se non aspettassero altro, si gettarono sopra i soldati, sopraffacendoli e trucidandoli fino all’ultimo. Che fosse o no preparata da congiure, la rivolta infiamma subito tutta la città, e poi tutta la Sicilia. Cacciati i francesi da Palermo si organizza un’amministrazione municipale provvisoria. Altrettanto succede subito dopo a Corleone. Dal patto di unione tra le due città del 3 aprile 1282 sarebbe nata l’attuale bandiera siciliana (con il giallo attribuito al Comune di Palermo e il rosso a quello di Corleone). I Francesi non hanno scampo, sono uccisi con le loro mogli o concubine, figli e collaborazionisti. La rivoluzione assume da subito un contorno etnico, e – nella rivolta – senza distinzioni di classi, i Siciliani scoprono per la prima volta di appartenere a quella che oggi chiameremmo una nazione o patria. Le testimonianze in tal senso, ormai anche in lingua siciliana, sono univoche. La Nazione siciliana dà generosamente la vita, le risorse, il proprio amore per un desiderio insopprimibile di libertà. In breve i Francesi sono cacciati da tutta l’Isola; il vicario di Carlo d’Angiò, Erberto d’Orléans, è costretto a lasciare Messina già alla fine di aprile. Con l’adesione di Messina alla Confederazione Siciliana, la Rivoluzione era completa. Gli ultimi rimasti, di sede a Sperlinga dove (caso unico) non erano odiati dai nativi, avrebbero resistito invece sino alla primavera del 1283. Anche le isole adiacenti, tra cui Malta, aderirono alla rivolta, che fu davvero corale e nazionale, ma a Malta gli Angioini riuscirono ad asserragliarsi provvisoriamente nel castello in attesa di rinforzi.
Re Carlo aveva sostanzialmente perso la Sicilia, e rischiava di perdere anche il Continente se questa fosse passata all’attacco, anche se – invero – nell’Italia meridionale non si registrò praticamente alcun conato di solidarietà nei confronti della rivoluzione insulare. Chiese così aiuto al nipote, re di Francia, e alle repubbliche marinare italiane, concentrando le proprie forze, insieme a quelle dei potenti alleati in Calabria, nell’attesa di poter passare lo Stretto. Forze soverchianti di numero, rispetto ai Siciliani, ma deboli nello spirito, giacché lottavano per una causa nella quale non credevano. Mentre per loro la guerra era una come un’altra, per i Siciliani era la guerra della vita, e per questo tiravano fuori energie che alla lunga fecero la differenza. Ad ogni modo, già a luglio Carlo inizia l’assedio di Messina, anche via terra, per cercare di limitare i rifornimenti alimentari e militari dal resto della Sicilia. I Siciliani riuscirono a mettere insieme un esercito di deterrenza alle spalle dei Francesi, a dare comunque sostegno ai Messinesi, ma furono questi ultimi da soli, sotto la guida dell’impareggiabile capitano Alaimo da Lentini, a respingere i Francesi con tutte le loro forze: tutti, comprese le donne, i vecchi e i bambini, furono mobilitati in questa eroica resistenza che i mercenari di Carlo non poterono in alcun modo vincere. Anche il tentativo di sfondare la catena del porto si rivelò un clamoroso fallimento.
La Sicilia si trovava però regredita a una somma di municipi e di signorie baronali mentre lo Stato era collassato. Si era tentato pertanto di dare una struttura confederale alla nuova formazione politica, sotto forma di una “CommunitasSiciliae”, che ricordava quasi le leghe delle antiche pòleis siciliane. I rappresentanti delle città si riunivano spesso in Parlamento, e questo, già tradizionale nella costituzione materiale del Regno di Sicilia, assume ora un’importanza politica di prim’ordine. Ma non esisteva un governo centrale e, nonostante l’indiscussa leadership della città di Palermo, poi le singole città decidevano se e come attuare le decisioni. Una struttura del genere non poteva reggersi a lungo, né avere alcun riconoscimento internazionale. All’inizio si tentò di mettere la “Comunità” sotto la protezione papale, ma i papi allora parteggiavano per gli Angioini e lanciarono l’interdetto contro l’Isola ribelle. A Messina, dove l’elemento greco non era ancora scomparso del tutto, si pensò anche di mettersi sotto la protezione di Costantinopoli, ma l’ipotesi fu generalmente scartata per il discredito e la debolezza che ormai caratterizzavano ciò che restava del vecchio Impero Romano d’Oriente. Alla fine prevalse il partito legittimista e “catalano”, sostenuto soprattutto da Giovanni da Procida, fuoriuscito dai tempi di re Manfredi, non siciliano, e dalla città di Palermo. In fondo la figlia superstite di re Manfredi, Costanza (da non confondere con la prima moglie di Federico II, né con la madre dello stesso) era andata in sposa proprio a re Pietro III d’Aragona, il quale accolse di buon grado l’invito dei Siciliani. Re Pietro, dirottando da una spedizione contro il Nordafrica, venne in Sicilia dove fu acclamato re il 7 settembre, accettando la delibera del Parlamento che aveva condizionato tale corona al rispetto “degli ordinamenti di Guglielmo il Buono”, il che significava essenzialmente abolire tutte le gabelle istituite da Federico II e inasprite dagli Angioini, e iniziò la guerra contro Carlo d’Angiò, sposando la causa siciliana.
Una grande mistificazione storiografica vorrebbe che la venuta di re Pietro (I di Sicilia, III d’Aragona) sarebbe coincisa con l’inizio di una fantomatica “dominazione aragonese”. Ai tempi, in realtà, Sicilia e Aragona erano due realtà troppo lontane e autonome per poter anche lontanamente pensare di poterne fare un unico regno. Re Pietro pensava piuttosto ad un ampliamento dinastico per la sua famiglia, ma nel quadro di due regni separati. Del resto, ancora, non era ben chiaro dove la spedizione sarebbe finita. In teoria la Rivoluzione siciliana, anche se non supportata da analoghi moti nel Continente, avrebbe dovuto portare alla cacciata degli Angioini da tutto il Sud Italia, ripristinando il grande Regno di Sicilia (dei “bei tempi di Guglielmo il Buono”, ancora invocato e ricordato dai Siciliani, più del recente ed esoso Federico di Hohenstaufen). Impensabile allora tenere la Confederazione Aragonese (che comprendeva Catalogna, Aragona, Valenza e Maiorca) e il Regno di Sicilia in un unico stato. Il “pedaggio” che la Sicilia dovette pagare fu che una serie di signorie feudali, anche molto ampie, vennero concesse a famiglie catalane e aragonesi, le quali si fecero spazio tra la nobilità più antica, detta “latina”, cioè semplicemente autoctona, e risalente ad epoca normanna o sveva. Di fatto, però, questi nuovi aristocratici si sarebbero rapidamente “sicilianizzati”, ed avrebbero costituito per i secoli successivi una componente indistinguibile da quella originaria.
Naturalmente, come poté, Pietro tentò di restaurare l’autorità regia e un’amministrazione centrale, passato il primo turbine rivoluzionario. Ma il processo non poteva essere completo. Bisognava allentare un po’ i cordoni della borsa, per non perdere la popolarità; Pietro era “di passaggio”, e non poteva dedicarsi ad un’ampia attività legislativa ed amministrativa; e infine si era in guerra contro Napoli, e quindi non si poteva “programmare” come in tempo di pace. In questo quadro il Parlamento di Sicilia, nel quale trovano stabile rappresentanza le città, oltre che i feudatari e i prelati, acquisisce sempre maggiore importanza. Pietro abolì le collette (primo abbozzo di imposizione diretta, ancora con carattere di eccezionalità nell’epoca pre-angioina, ma che era stata abusata proprio dagli Angioini-Provenzali) e i diritti di marineria introdotti da Ruggero II (obbligo di fornire uomini e mezzi per la costruzione della flotta del Regno). Al posto dei “reali” a Messina si conieranno i “pierreali”, ma l’epoca della dinastia aragonese sarà nel complesso da un punto di vista monetario piuttosto disordinata, con una progressiva inflazione di ogni valore di riferimento: si coniano solo i pierreali, teoricamente multipli del tarì e i denari, moneta spicciola, mentre onze, tarì e grani restano moneta di computo non coniata.
L’assedio di Messina è spezzato, il 2 ottobre Pietro entra trionfalmente nella città dello Stretto. L’eroico difensore della città, Alaimo da Lentini, è nominato a vita Gran Giustiziere del Regno. Ai primi del 1283 Pietro sbarca in Calabria e conquista la città di Reggio e alcuni centri vicini. Ma il re comprese subito di non avere i mezzi per scalzare i Francesi da tutta l’Italia meridionale, anche perché qui mancava il sostegno indispensabile della popolazione, tranne forse un po’ a Reggio. Tornò quindi indietro e sistemò l’amministrazione del Regno: lasciò la moglie Costanza come reggente nominale, ma affidò come vicario il governo al secondogenito Giacomo (il primogenito Alfonso era rimasto a Barcellona come vicario per l’Aragona), Giovanni da Procida fu nominato cancelliere del Regno, Roggero di Lauria, altro fuoriuscito, ammiraglio. Con la venuta della famiglia reale era venuto in Sicilia anche il più piccolo degli Aragona, Federico, allora dell’età di nove anni. Pietro faticò un po’ a rimettere l’ordine nel Paese, perché per alcuni il Vespro era soltanto un mezzo per non rispettare più alcuna legge. Tra questi, tale Gualtiero di Caltagirone, che ora congiurava con gli Angioini, ma che fu condannato a morte. Fatto questo, Pietro tenne Parlamento a Messina e tornò in Catalogna per affrontare un duello, a cui lo aveva sfidato Carlo d’Angiò, da tenersi a Bordeaux, allora in mano agli Inglesi, e quindi teoricamente in campo neutro. Il duello non si tenne mai, giacché Pietro, arrivato a Bordeaux, ebbe notizia che era piena di cavalieri francesi che lo avrebbero ucciso anche se avesse vinto; sicché, denunciando il tranello, fuggì di nascosto, accusato poi a sua volta di viltà da parte di Carlo d’Angiò.
Nel frattempo papa Martino IV proclamava niente meno che una crociata contro l’Aragona e la Sicilia, dimenticando che gli ultimi crociati, veri, del Regno di Gerusalemme, avevano in quegli anni disperato bisogno di aiuto per non essere travolti, ciò che effettivamente accadde con la caduta di S. Giovanni d’Acri nel 1291. I Siciliani, superiori sul mare, non ne furono sconvolti. Grazie all’ammiraglio Roggero Lauria si arrese la guarnigione del castello di Malta, furono occupate Ischia e Capri, mentre l’esercito lentamente risaliva la Calabria. Il 5 giugno del 1284, in una battaglia navale proprio nel Golfo di Napoli, Carlo lo Zoppo, principe di Salerno, l’erede al trono di Carlo d’Angiò, è sconfitto e catturato dai Siciliani. Come condizione per non ucciderlo questi ottengono la libertà dell’ultima figlia superstite di Manfredi, Beatrice, ancora ostaggio dei Francesi. Carlo lo Zoppo (II) è condotto prigioniero in Sicilia. Esaltato dalla sua forza navale, Roggero Lauria punta verso la Tunisia e occupa Gerba e le Isole Kerkennah, che entrano a far parte del Regno di Sicilia come suo feudo.
Il vicario Giacomo, in questo frangente, geloso della popolarità del giustiziere Alaimo da Lentini, lo invita con un pretesto ad andare in Aragona a soccorrere il re dall’invasione francese ma, una volta allontanato, lo dichiara traditore, gli espropria i beni, e ne chiede la testa al padre. Pietro non crede al figlio e trattiene il giustiziere a Barcellona dandogli una pensione. Mentre l’Aragona si apprestava a reggere l’urto della Francia, scatenata contro dalle ire del papa, la Sicilia, da sola, travolgeva i Napoletani, sfondando in Basilicata. Gallipoli, in Puglia, riconosce re Pietro, Taranto è conquistata (1285). Carlo, con i suoi Provenzali e i meridionali “collaborazionisti”, sa di non poter resistere oltre: invoca l’aiuto papale e francese, che non tarda ad arrivare. Un fiume di denaro e di soldati arriveranno d’ora in poi da Roma, dall’Italia guelfa e delle repubbliche marinare, dalla Francia, solo per arrestare l’impeto irresistibile dei Siciliani, riuscendo quanto meno a bloccarli. Sono i momenti di maggior gloria politico-militare per la Sicilia. La flotta siciliana di Lauria salpa alla volta dell’Aragona per difendere re Pietro, affondando quasi tutta la flotta francese al grido che era stato anche delle altre battaglie navali: «Sicilia e Aragona!». La grande Aragona era stata salvata dall’impeto dei Siciliani. La crociata contro di loro si era rivelata un fallimento totale. Fatto sta che Pietro poté solo iniziare questa guerra, morendo solo tre anni dopo il suo inizio (1285), subito dopo essersi fatto consegnare da Giacomo, Carlo II, il figlio di Carlo d’Angiò, ancora ostaggio dei Siciliani. Nello stesso anno moriva anche il suo grande antagonista, Carlo I d’Angiò, lasciando erede un figlio ostaggio del nemico e un nipote assistito da un Consiglio di Reggenza. Papa Onorio IV, che era successo a Martino IV, per tentare di far recuperare popolarità agli odiati angioini, ricostruì nel Regno di Napoli (come già di fatto era chiamato il Regno di Sicilia angioino ridotto alla sola Italia meridionale), il blando sistema di tassazione dei tempi di Guglielmo il Buono, con delle Costituzioni che avrebbero portato il suo nome.
Fine 18esima puntata/ Continua
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