di Massimo Costa
La tragedia del figlio ribelle costringe Federico II a rioccuparsi personalmente della Germania
Dopo un breve periodo relativamente pacifico, in cui fu domata qualche piccola ribellione interna, e furono tenuti due parlamenti a Siracusa (1233) e a Messina (1234), un’altra disgrazia cadde sul capo del grande sovrano: il figlio maggiore Enrico, che da anni aveva nominato in sua vece vicario in Germania per i possedimenti imperiali, si ribellò al padre e si alleò con i Comuni italiani guelfi ribelli della Lega Lombarda, sconfessando invece le città fedeli all’Impero, le ghibelline. Enrico fu deposto, condannato a morte, ma poi la pena fu commutata in ergastolo dal padre. Trasportato di prigione in prigione, in uno di questi trasferimenti (1242) Enrico morì suicida buttandosi da un dirupo in Calabria. Dopo aver sconfitto il figlio, Federico si sposa per la terza volta, questa volta con Isabella d’Inghilterra. Federico avrebbe tenuto quasi segregata questa giovane moglie, da cui avrebbe avuto un altro figlio, Enrico, e che restò spesso lontana dal marito, fissando infine la sua residenza a Napoli fino alla morte, avvenuta nel 1241. Il venir meno del figlio in Germania lo costringe a uscire dalla Sicilia e a spostare verso nord il baricentro della propria azione. Riprende il disegno di costituire il Regno d’Italia in modo accentrato come il Regno di Sicilia. È costretto a tornare in Germania per domare la ribellione del Ducato d’Austria e quindi ristabilirvi l’autorità imperiale, del resto fin allora sempre salda, seppure nel regime feudale di quel regno. Sistema quindi le cose facendo riconoscere ora il figlio Corrado “Re dei Romani” (in sostanza lasciandogli il posto di vicario lasciato libero dal fratello Enrico), potendo così ritornare nel 1237 all’assedio di Milano, che guidava le città ribelli in Italia.
Sempre nel 1237 i Siciliani sbaragliano i Lombardi guelfi nella battaglia di Cortenuova, togliendo loro pure il Carroccio. Federico non seppe però approfittare da questa vittoria, perché pretendeva una resa a discrezione, non concedendo neanche condizioni onorevoli agli sconfitti. Nel frattempo estendeva il suo potere anche sulla Sardegna, facendo eleggere re dell’Isola il figlio naturale Enzio, ed eccitando ancora di più la resistenza italiana dei Guelfi e del Papa. Federico è nuovamente scomunicato, addirittura si bandisce contro di lui una crociata. La guerra che ne seguì contro il papato, spalleggiato dai Guelfi d’Italia e di Germania, non ebbe praticamente più fine, a parte qualche breve e fallito tentativo di conciliazione, e non è praticamente possibile seguirla in tutte le sue fasi. Teatro di guerra fu soprattutto l’Italia settentrionale, mentre le “crociate” contro Federico II non arrivarono neanche alla Puglia. Altro teatro fu quello diplomatico, nel quale Gregorio IX tentò senza successo di deporlo. Anche sul mare Federico ebbe la meglio, mentre il tentativo di servirsi della flotta veneziana per assaltare la Sicilia, roccaforte del potere fridericiano, non ebbe alcun seguito. In ogni caso il Regno, e la Sicilia stessa, furono inutilmente logorate da questa contesa infinita tra papato e impero. Nuovamente furono coniate monete di cuoio, ma pare poi Federico sia riuscito a dare ai portatori di questo corso forzoso il corrispondente in oro. La lotta fu così aspra che quando i Cumani, un popolo tartaro, arrivarono ad invadere e saccheggiare l’Ungheria, la Polonia e finanche la Boemia, dentro i confini dell’Impero (siamo poco dopo l’epoca di Gengis Khan), non si riuscì a trovare un accordo tra Papa e imperatore per organizzare una difesa comune e fu praticamente solo per fortuna che la stessa Germania non finì per essere invasa. Nemmeno la morte di Gregorio IX (1241) riportò la pace. Innocenzo IV riparò a Lione, perché quasi tutta l’Italia era ormai in potere di Federico, ma la guerra continuò incerta a lungo per entrambe le parti. Seguirono epurazioni interne e repressioni dei traditori, tra i quali venne ascritto, a torto o ragione, il segretario Pier Delle Vigne, fino ad allora fedelmente al fianco dell’imperatore (1246), e a cui si doveva la raccolta delle Costituzioni siciliane.
Durante il soggiorno papale a Lione, Federico progettò più volte di recarvisi e di passaggio, attraversando il Regno di Arelat (Borgogna) che non aveva mai potuto visitare ma che aveva gestito solo per mezzo della cancelleria imperiale, e in cui il potere centrale si stava progressivamente sfaldando. Nel tempo la Confederazione elvetica, il Ducato di Savoia, la Contea di Borgogna (poi detta Franca Contea) e la Contea di Provenza lo avrebbero di fatto smembrato; quando più tardi l’Impero avrebbe concesso temporaneamente, poi di fatto definitivamente, la parte centrale del Regno, detta Delfinato, alla Francia, sarebbe cessato di esistere del tutto. Ma, a partire dal 1243, quindi ancora vivo Federico, il più grande feudo di quel regno, la Contea di Provenza, già era andato in mano a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX il Santo, colui che più tardi avrebbe conquistato la Sicilia. Per vari contrattempi, arrivato a Torino, Federico si fermò sempre e rinviò l’idea di mettere ordine anche in quel regno, ciò che poi non sarebbe mai più avvenuto. I rapporti con la Francia erano peraltro allora più che buoni. Luigi IX aveva tentato più volte inutilmente di riconciliare Imperatore e Papa, ed aveva ricevuto da Federico ingenti rifornimenti in vettovaglie alla sua partenza per la sfortunata VII crociata. Nel frattempo intanto perdeva il pieno controllo della Germania, dove al posto del figlio Corrado il Papa aveva fatto eleggere altri “Re dei Romani”, conservando questi a malapena la Svevia e pochi altri fedeli feudatari ghibellini. Adesso Federico aveva abbandonato persino la stessa Puglia, continuamente impegnato nei campi di battaglia dell’Italia settentrionale. La Sicilia, teoricamente sede del Regno, dove ormai teneva corte di rado (una volta vi giunse per sistemare le tombe dei suoi avi), resta silenziosa e pacifica, il cuore dei domini di Federico, troppo esposta però alle ambizioni universali del suo re in guerre che in ultimo non erano più negli interessi di un Regno ormai trasformato in Impero. Tornò in Sicilia, dopo la cattura da parte dei Bolognesi di suo figlio Enzio, per tenere un Parlamento in cui chiese fondi per la guerra infinita contro i Guelfi: la Sicilia, fedelissima, non rifiutò.
Lasciato a Palermo il piccolo Enrico, avuto dal suo terzo matrimonio, varca di nuovo lo Stretto per intraprendere le ennesime campagne contro i Guelfi ribelli, ma in quel di Fiorentino di Puglia trova la morte: lascia il figlio legittimo maggiore, Corrado, erede dell’Impero, dei troni di Germania e d’Italia e di quello di Sicilia, ma, finché non volesse o potesse mettere piede in Sicilia, suo vicario qua sarebbe stato il figlio illegittimo Manfredi, avuto da Bianca Lancia, il suo unico vero amore, forse sposata in punto di morte, mentre al piccolo Enrico restava, a scelta del maggiore, o il Regno di Gerusalemme, o quello di Borgogna, lasciando quello non “optato” allo stesso Corrado. Mai più la Sicilia avrebbe avuto una proiezione politica altrettanto ampia di quella che si stava chiudendo con l’imperatore e re Federico.
Alla morte di Federico II (1250) la Germania si rende in pratica “indipendente” dalla Sicilia, sotto il figlio Corrado IV che vi risiedeva stabilmente, lasciando il fratellastro Manfredi, figlio illegittimo, come vicario, secondo il menzionato testamento. Corrado sulle prime non poteva del resto occuparsi della Sicilia, perché papa Innocenzo IV gli aveva creato problemi in Germania, continuando a sostenere un altro “Re dei Romani”, Guglielmo d’Olanda, e ci volle del tempo per venirne a capo. Manfredi di fatto opera come un re. L’odio implacabile di Papa Innocenzo IV, rifugiato a Lione fino alla morte di Federico II, non si limita a destabilizzare la Germania, ma rinfocola il partito guelfo in Italia, e finanche nel Regno di Sicilia, dove feudatari e città dell’Abruzzo, della Campania e della Puglia si ribellano. Manfredi deve lasciare la Sicilia (che comprendeva anche la Calabria) nominalmente al piccolo fratello Enrico, re di Gerusalemme, ma in pratica al suo balio Pietro Ruffo, il quale fu infido e cercò sempre di tramare ai danni di Manfredi. Ma è singolare come Sicilia e Calabria amassero Manfredi e non si ribellassero, a differenza degli stati meridionali, pronti alla prima occasione a voltare le spalle alla Sicilia. Manfredi con le sue sole forze riprende la Puglia, ma deve attendere il fratello Corrado dalla Germania (1252) che, dopo ben pochi successi in Italia settentrionale, riporta l’ordine in Abruzzo, a Capua e finalmente espugna Napoli, capofila della rivolta antisveva. Tiene anche un Parlamento a Melfi, e ridimensiona il potere di Manfredi, allora Principe di Taranto, per le maldicenze che il Ruffo aveva insinuato contro di lui.
Manfredi accettò senza fiatare questa diminuzione, con grande prudenza, ma si sarebbe rivelato poi un gran re di Sicilia. Limitando il suo dominio al solo Regno (compresi i possedimenti continentali) poté per certi versi curarne gli interessi meglio ancora del padre, con il quale condivideva spirito e interessi letterari. Manfredi avrebbe rafforzato l’istituto del Parlamento. Se Federico aveva invitato nello stesso i rappresentanti delle città (pur avendo ridotto al minimo l’autonomia municipale), in chiave antifeudale, Manfredi trasforma questa partecipazione da episodica a strutturale, dando quindi una larvale base democratica ai parlamenti siciliani. Corrado IV sarebbe stato disposto ad accettare la sudditanza feudale al Papa anche per il Regno propriamente detto (cosa mai concessa prima), pur di avere la pace, ma la stessa ostinazione di Innocenzo IV impedì ancora una volta questa degradazione della Sicilia a feudo, da sempre sognata dai Papi e mai realizzata. Poco dopo (1254) la casa di Hohenstaufen è segnata da due lutti precoci. Muore prima Enrico, il fanciullo Re di Gerusalemme (il Regno è ripreso dallo stesso Corrado IV), e poco dopo lo stesso Corrado IV, lasciando erede di tutti gli stati il figlio Corradino e un vicario tedesco, anche per il Regno di Sicilia, che presto però, impegnato com’era in Germania, richiamò al vicariato Manfredi che, esautorato dal fratello, si era ritirato nel suo Stato a Taranto. Manfredi riprende il potere e in qualche anno riporta l’ordine in un paese che di nuovo era dilaniato dall’anarchia istigata da Innocenzo IV e, alla morte di questo, da Alessandro IV. Nessuna proposta di pace fu mai accettata dai papi, neanche la donazione allo Stato della Chiesa dell’intera Terra di Lavoro. Manfredi a questo punto si risolse a riprendersi tutto con la forza, pacificando anche la Sicilia, che questa volta, per le troppe assenze di Manfredi nel Continente, era dilaniata da alcune adesioni ai Guelfi e da una rivolta repubblicana a Messina. Determinante in questi successi militari è l’apporto dei Saraceni di Puglia, discendenti di quei Siqilli deportati da Federico II quasi mezzo secolo prima. Espulso il Ruffo, quando si trovava in Continente, il governo della Sicilia fu affidato ai suoi stretti parenti di casa Lanza e poi comunque a ministri fidati.
Manfredi si fa re ed espande la zona d’influenza siciliana su Albania ed Epiro
Acquistato tanto potere per conto del lontano nipote, ancora sotto tutela della madre Elisabetta, Manfredi si fa quindi investire dal Parlamento a Palermo della corona di Sicilia (1258). La Sicilia sembrava avviarsi ad avere una dinastia nazionale e a recidere ogni legame con la Germania, ciò che le aveva causato più danni che altro. Restava però l’instabilità geopolitica che lo costringeva continuamente a varcare lo Stretto per gestire ora le Puglie, ora la Sicilia, sebbene avesse fissato corte a Palermo più frequentemente di quanto non avesse fatto Federico II negli ultimi tempi. Nel 1260 Manfredi conclude un’alleanza con l’Aragona, facendo sposare la figlia Costanza, avuta dal suo primo matrimonio con Beatrice di Savoia, con Pietro, figlio del re di quel paese. In seconde nozze (1259) Manfredi aveva sposato Elena Ducas, figlia del Despota dell’Epiro, da cui ebbe altri figli. Questo matrimonio consentì un’espansione della Sicilia nei Balcani. Già Manfredi aveva occupato Durazzo (1256); ora Elena, nel contratto nuziale, portava come dote la stessa Durazzo, Valona, Corfù, Berati ed altre piazzaforti in Albania o in Epiro. In cambio l’Epiro (staterello – si ricorderà – nato dalla frammentazione dell’Impero bizantino) si metteva sotto la protezione militare della Sicilia.
Il papato, dopo aver a lungo tentato di dare il Regno di Sicilia agli Inglesi, non ricevendone mai una risposta definitiva, si risolve a chiamare in aiuto i Francesi contro i Siciliani, e incorona, in maniera del tutto illegittima, Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, re di Sicilia. L’incoronazione di Carlo come “Re di Sicilia”, già conte d’Angiò e, fuori dal Regno di Francia, già conte dell’importante feudo di Provenza (teoricamente parte del Regno di Borgogna, in realtà stato a sé), a Roma nel 1266 è quanto di più nullo si possa immaginare. Tutti i re di Sicilia erano stati sempre incoronati a Palermo, non a Roma. Il Regno di Sicilia non si era mai riconosciuto feudatario del Papa, se non per il Ducato di Puglia e il Principato di Capua, cioè le corone aggregate alla Sicilia sin dal 1130, e quindi il papa non aveva alcun diritto di investire alcunché. Il Regno di Sicilia era stato sin dalla sua origine parlamentare, e l’ultima parola sulla corona era sempre spettata al Parlamento, ciò che mai fece Carlo d’Angiò, il quale sin dall’inizio inaugurò un governo assoluto sul modello francese. La masnada di predoni che accompagnava Carlo era fatta da avventurieri raccolti da tutta la Francia e dalle Fiandre. Passarono alla storia come gli “Angioini”, dal nome della piccola contea di origine di Carlo. Ma molti storici tradizionali siciliani li chiamano forse più correttamente “Provenzali”, dal nome del maggiore stato su cui regnava Carlo.Carlo d’Angiò, in altri termini, anche se assunse (abusivamente) il titolo di “Re di Sicilia”, può a ben diritto essere considerato il fondatore di un vero e proprio altro stato, il Regno di Napoli, siciliano soltanto nel nome. Nel 1266 Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento, la sua progenie dispersa, tranne la figlia maggiore, Costanza, già andata in sposa al re d’Aragona Pietro III, e la figlia Beatrice, che sarà liberata durante il Vespro e che sarebbe diventata poi marchesa di Saluzzo. Con lui quindi si estingue la dinastia sveva in Sicilia.
Carlo continua la sua totale eversione spostando finanche la capitale da Palermo a Napoli, che era stata il centro di tutte le rivolte antisveve, e affidando alle cure di un “viceré” l’amministrazione (o dovrebbe dirsi la rapina?) della Sicilia, il quale non siede neanche nell’odiata Palermo, ma a Messina. Si susseguono in Sicilia ribellioni, prima e dopo la morte di Corradino di Svevia, sconfitto e ucciso nel suo estremo tentativo di recuperare il Regno agli Hohenstaufen(1268). Ci fu, durante queste rivolte, un momento in cui Carlo controllava soltanto Palermo, Messina e Siracusa. Questo almeno fino a tutto il 1270, quando ogni resistenza siciliana è infine stroncata con orribili stragi, rapine, stupri e violenze di ogni genere. Sulle prime l’opinione pubblica è divisa; in alcune città si registrano anche partigiani dei provenzali, detti spregiativamente “Ferracani”. Ma il malgoverno francese, e l’odio insanabile di Carlo contro i Siciliani tutti, colpevoli di restare nel complesso fedeli alla casa sveva, alienano del tutto ogni simpatia per il nuovo regime. Al termine dell’aver soggiogato la Sicilia, Carlo d’Angiò si aggrega alla VIII e ultima crociata (1270), indetta dal fratello Luigi IX il Santo, re di Francia, fatta dirottare su Tunisi. L’unico risultato della crociata è quello di rendere nuovamente il Regno di Tunisi tributario della Sicilia (cioè ormai di Napoli, nel fatto) e di imporre un presidio “siciliano” a Tunisi, mentre la sua stanca prosecuzione in Oriente, da qualcuno chiamata anche IX Crociata, non condusse ad alcun risultato. Mentre il vecchio Ducato di Puglia – Principato di Capua, già soggetto malvolentieri alla Sicilia, si adatta abbastanza bene al nuovo ordine, la Sicilia resta invece in continuo fermento, subisce la violenza angioina-provenzale, ma da più parti si complotta o si prepara una ribellione, che non sarebbe tardata ad esplodere. Non seguiamo, perché davvero effimere, le riforme amministrative e politiche degli Angioini, destinate a permanere più nel Regno di Napoli che in Sicilia. Ci limitiamo a dire che simbolicamente Carlo fece coniare a Messina di nuovo la pregiata moneta aurea che era stata di Federico, con una posa simile, ma questa volta detta “Reale” e con i gigli francesi al posto dell’Aquila siciliana: mai più la Sicilia avrebbe avuto questa sostituzione di simboli, che invece a Napoli avrebbe messo radici, rafforzata secoli dopo dai Borbone, che avrebbero fatto del Giglio francese (odiato dai Siciliani) il simbolo stesso delle loro “Due Sicilie”. Altro simbolo “napoletano” del “nuovo” Regno di Sicilia sarebbe stato la Chinea, cioè il cavallino rampante, in onore all’omaggio feudale simbolico fatto annualmente al papa. Il Regno di Napoli nasceva, quindi, valorizzando proprio ciò che re Altavilla e Hohenstaufen avevano subito a malincuore: la sudditanza feudale a Roma degli stati meridionali, una sudditanza che mai aveva interessato l’Isola di Sicilia, addirittura sovrana, al contrario, in materia religiosa.
Cronologia politica della dinastia Hohenstaufen:
1194-1197 Enrico (I di Sicilia, VI S.R.I) e Costanza I Altavilla
1197-1198 Costanza I Altavilla
1198-1250 Federico (I di Sicilia, II S.R.I.) (sotto reggenza di Innocenzo III fino al 1210, 1212-1235 nominalmente correggente il figlio Enrico II)
1250-1254 Corrado (I di Sicilia, IV S.R.I.), vicario Manfredi Hohenstaufen
1254-1258 Corradino (Corrado II), vicario Manfredi Hohenstaufen
1258-1266 Manfredi
1266-1282 “Mala Signorìa” angioina di Carlo d’Angio
Foto tratta da Timetoast
Visualizza commenti