di Antonio Piraino
Il Recovery Plan non è – non può essere – oggettivamente la madre di tutte le speranze del Paese. Lo dicono i numeri! Su 209 miliardi 65,7 mld. sono per progetti già in essere in parte finanziati. Quindi le risorse effettivamente aggiuntive saranno 143,3. Considerato che si dovranno spendere entro il 2026 con 1-2 anni di tolleranza, significa che dobbiamo “spalmarli” in 7 anni. Per tale ragione si tratta di una spesa aggiuntiva di 20 mld. annui. Ricordo per memoria che la perdita di PIL 2030 è stata di 157 mld (1.787*8,8%) e che sempre con riferimento al 2019 la perdita di PIL 2021 sarà, seppure in diminuzione, di almeno 100 miliardi! Sempre nel 2020 il debito pubblico è cresciuto di 194 miliardi. Questo per capire che il problema del Paese è più complesso e drammatico dell’attuale rappresentazione mediatica e che i nodi prima o poi bisognerà affrontarli, andando oltre il Recovery Plan.
Per questo non occorrono complesse argomentazioni per capire che bisognerà azionare anche altre leve.
Ed in effetti non è mancato qualche timido seppure scomposto riferimento al Sistema Bancario, in particolare alla forte crescita dei depositi fino a battute del tipo: “nelle banche 1.900 mld da investire!”.
In realtà i Governi Conte hanno affrontato la crisi economica innescata dalla pandemia con il “congelamento” delle imprese e dei loro debiti attraverso un azzardato processo di generale assicurazione pubblica del credito in essere, che – rispetto ai roboanti annunci estivi di colossali iniezioni di liquidità per 600 miliardi – ha prodotto una crescita degli impieghi 2021/2020 di appena 16 miliardi. Della serie, la montagna ha partorito un topolino! Ciò non significa che il tema non esiste. Anzi! Semplicemente va impostato – meglio reimpostato – correttamente. Al 30 settembre 2020 gli impieghi del “sistema” ammontavano a 1.775 mld a fronte di depositi per 1.937 mld. Quindi un potenziale di crescita ‘interna” di 152 mld, ai quali vanno aggiunti almeno altri 300 miliardi di potenziali crediti finanziati dalla BCE per un totale complessivo nell’ordine di 500 miliardi. La vera massa di manovra del Sistema Bancario.
Fatta questa doverosa contestualizzazione per capire la portata della posta in gioco, entriamo nel merito dell’odierno dibattito. Quando comincia, al di là di alcune avvisaglie, la fine del sistema bancario del Mezzogiorno? Esattamente nell’estate del 1990, quando la Banca D’Italia pubblica una imponente ricerca del suo Ufficio Studi su ‘Il sistema finanziario del Mezzogiorno”. Grazie ad internet quel volume è facilmente consultabile. Ne vale la pena! Ma cosa diceva in estrema sintesi quello studio ammantato di scientificità? L’economia reale del Mezzogiorno paga in termini di crescita l’inefficacia e l’inefficienza del sistema bancario del Mezzogiorno, troppo frammentato e prevalentemente gestito da un management pubblico/privato inadeguato. L’alto rapporto sofferenze/impieghi, il basso rapporto degli impieghi sulla raccolta, il differenziale del costo del denaro, l’alto rapporto del costo del personale sul margine di intermediazione, gli scarsi utili erano gli indicatori che non lasciavano dubbi. Occorreva aprire il mercato bancario del Mezzogiorno in modo massiccio alla concorrenza “esterna” attraverso la liberalizzazione degli sportelli e l’acquisizione delle banche territoriali da parte delle banche del Centro-Nord. Questo mentre a livello nazionale si mettevano progressivamente in discussione e si smontavano i capisaldi del sistema che aveva guidato il boom economico degli anni 60/70: distinzione delle banche di credito ordinario dagli istituti di credito speciale e dalle poche banche d’affari, segmentazione giuridica e dimensionale, forte prevalenza pubblica, frammentazione e netta separazione banche-imprese. Il tutto finalizzato a costruire nel tempo un sistema di banche universali miste a controllo privato. Quello che si è puntualmente verificato e di cui credo tutti abbiamo esperienza diretta.
Fatta questa lunga ma opportuna premessa sorge la domanda: cosa è successo nel Mezzogiorno con riferimento agli indicatori richiamati? Non lo sappiamo in modo puntuale perché le analisi della Banca d’Italia sono regionalizzate e ricostruire le serie del Mezzogiorno è complicato ma possiamo usare una proxi come la Sicilia per capire, atteso che i trend delle regioni meridionali sono stati assolutamente omogenei. Nel 1999, dieci anni dopo la pubblicazione dello studio, gli impieghi bancari della Sicilia erano il 5% del totale nazionale. A settembre 2020 (ultimo dato disponibile) la stessa percentuale è diminuita al 3,17%. Cioè dell’1,83%, che su un monte impieghi di 1.774 mld equivale a 32 miliardi di minori crediti. Considerando che la Sicilia pesa sul Mezzogiorno per 1/4 stiamo “parlando” di un razionamento del credito di 130 miliardi! A prescindere da come la si giri, il dato anche “statico” è drammatico: a fronte dell’8% della popolazione la Sicilia ha solo il 3,17% degli impieghi! Nel settembre 1988 (dato disponibile) il costo del denaro era in Italia il 13,62% a fronte di un dato del Mezzogiorno del 15,36%. Lo “spread” era quindi di 174 punti pari ad una percentuale dell’8,4%, che tanto preoccupava la ricerca richiamata.
Successivamente un decennio dopo, nel 1.999, “a conquista” avviata il costo del denaro in Italia era 5,55% a fronte di un dato regionale del 7%. Lo spread era 145 punti con una percentuale di incidenza salita al 26%! Nel 2018 ultimo dato disponibile il costo del denaro in Italia era pari al 3,08% a fronte di un dato regionale del 5,44% con uno spread di 236 (!) punti pari ad una maggiore in incidenza del 77%. Insomma ci avviciniamo ad avere un costo del denaro doppio ma nessuno ne parla più!
Conseguito l’obiettivo, perché di obiettivo si è trattato (la fine del sistema bancario del Mezzogiorno) come tutti possiamo constatare è calato anche su questa tematica un silenzio assordante. Dunque che fare di quel poco o prossimo al nulla che è ancora sul campo? Ma cosa resta sul campo al di là di alcune realtà eroiche che vanno salvaguardate (in Sicilia la Banca Popolare di Ragusa e la Banca Popolare Sant’Angelo)?
1) Il “tris” in crisi strutturale oramai a controllo pubblico: il Monte dei Paschi, la Carige e la Banca popolare di Bari;
2) i due gruppi bancari delle BCC;
3) il “conglomerato” Invitalia-Banca del Mezzogiorno-Mediocredito-Centrale.
Cosa è probabile che succeda “naturalmente” se non verrà elaborata una strategia nell’interesse del Paese e del Mezzogiorno?
1) le tre banche in crisi (il Monte dei Paschi ha annunciato un bilancio 2020 in perdita di 1,7 mld) saranno – con linguaggio moroteo – sapientemente assorbite da uno o più grandi player operanti in Italia (con linguaggio meno prudente “regalate”);
2) i due gruppi delle BCC assorbiranno progressivamente le singole BCC per trasformarsi alla fine “in due o unica banca” a capitale prevalentemente privato;
3) l’attività della Banca del Mezzogiorno resta schiacciata e paralizzata, come già di fatto è attualmente, tra Invitalia e Mediocredito-Centrale.
Cosa potrebbe fare una volontà politica che superi lo schema ideologico del “liberismo puro” che vede solo banche universali miste? Azzardiamo una ipotesi complessiva. Con riferimento al “tris” in crisi, procedere alla fusione delle tre realtà e alla successiva regionalizzazione in una logica di gruppo bancario integrato pubblico/privato sul modello di quanto ipotizzato dalla stessa Banca Intesa prima dell’avvento dell’attuale AD. Con riferimento alle BCC, procedere alla fusione dei due “gruppi” che diventerebbero il 3° player nazionale, rivedendo il cosiddetto contratto di coesione per ridare potere di indirizzo alle BCC e ad un tempo stabilendo per legge il numero minimo di BCC che dovranno essere presenti per regione. Con riferimento a Invitalia-Banca del Mezzogiorno-Mediocredito-Centrale riportare la Banca del Mezzogiorno ad una piena autonomia e specializzarla in merchant banking per le piccole e medie imprese del Mezzogiorno. Poco? Molto? Dal mio punto di vista sarebbe già tanto! Ma sinceramente e realisticamente non ci credo in un Paese a trazione oligarchico/finanziaria.