Ieri abbiamo commentato un articolo pubblicato dal Corriere della Sera a firma di Aldo Cazzullo. Si tratta, per la precisione, di una rubrica che il giornalista tiene sul quotidiano che fu (il passato remoto è d’obbligo…) di Luigi Albertini, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Alberto Ronchey. Nel suo articolo il piemontese Cazzullo nega che nella fortezza piemontese di Fenestrelle i piemontesi abbiano scannato migliaia di militari del regno delle Due Sicilia che si rifiutavano – e facevano benissimo – si sottomettersi ai piemontesi invasori del Sud e della Sicilia. Al piemontese Cazzullo – non con le chiacchiere, ma con documenti ufficiali (tra questi, documenti della Farnesina e interventi di deputati al Parlamento italiani di quegli anni) – replica Ignazio Coppola.
di Ignazio Coppola
Nel maggio del 1860, mentre Garibaldi era nel pieno della sua impresa di “liberazione- conquista” della Sicilia, Karl Marx con tono augurale e speranzoso per un futuro migliore delle popolazioni meridionali, sulle colonne del giornale radical-democratico The New York Daily Tribune, del quale era un assiduo collaboratore, così scriveva: “ I siciliani e i napoletani saranno, a tempo debito, i vincitori sia pure sotto un altro sovrano. Qualsiasi cambiamento non potrà essere che per il meglio”. Mai augurio e previsioni furono così sbagliati. I siciliani e i napoletani sconfitti su tutta la linea non conobbero un futuro migliore e ogni cambiamento non fu che per il peggio. Iniziano così gli atavici problemi della “questione meridionale” per cui una buona parte della popolazione povera del Mezzogiorno sarà posta davanti a un
Del resto, che ci si poteva aspettare da chi, in dispregio dell’onore militare, non rispettava quasi mai i patti? Di questi ricorrenti comportamenti ne è significativo esempio quanto avvenne, in occasione della lotta al brigantaggio, quando le truppe italo piemontesi ricorrendo, come era loro abitudine, al tradimento e all’inganno, a Trivigno (un paesino della Basilicata) avendo diramato un proclama in cui promettevano salva la vita ai briganti che si fossero presentati spontaneamente, al costituirsi di ventotto contadini, contravvenendo al proclama, li fucilarono immediatamente senza processo e senza pietà. Dopo la resa di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto decine e decine di migliaia furono i prigionieri del disciolto esercito napoletano, in palese violazione agli accordi della capitolazione che prevedevano la loro liberazione, furono, per “rieducarli” a una logica di asservimento al nuovo Stato unitario e per indurli a prestare giuramento al re “galantuomo” Vittorio Emanuele II, strappati alla loro terra d’origine, deportati e indiscriminatamente relegati nelle prigioni del Nord. Nel primo decennio unitario l’Italia, dal Nord al Sud, divenne un immenso campo di concentramento. A questo aveva portato la politica miope, repressiva, autoritaria e barbara del nuovo Stato unitario che con le numerose leggi speciali le quali, nella loro quasi totalità, abolirono le prerogative costituzionali e gli elementari diritti dei cittadini, e promossero quelle sull’obbligatorietà del servizio militare e la repressione del brigantaggio (con le conseguenze che precedentemente abbiamo visto).
Tutto ciò fece apparire, a buon ragione, alle popolazioni meridionali e soprattutto agli strati più deboli e indifesi, il nuovo Stato italiano, come oppressore e conquistatore anziché, come avevano vanamente sperato, “liberatore”. Per piegare la volontà di chi del disciolto esercito napoletano non volesse aderire al nuovo esercito e di conseguenza non volesse sottostare alla obbligatorietà al servizio militare e prestare giuramento al nuovo re Vittorio Emanuele II, con decreto del 20 gennaio 1861 vengono istituiti “i depositi dei soldati e d’uffiziali d’ogni arma del disciolto esercito delle Due Sicilie” e concentrati a decine e decine
Nel libro del 1999 di Fulvio Izzo I lager dei Savoia Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali vi è una puntuale e documentata descrizione della insostenibile e disumana condizione carceraria dell’Italia post-unitaria. Una situazione identica dappertutto, da Nord a Sud, in cui migliaia e migliaia di cittadini, grazie a leggi liberticide, vengono arrestati per un non nulla e in molti casi rimanendo per anni in attesa di giudizio, sono gettati a imputridire in carceri simili a fogne (altro che le prigioni borboniche, che furono definite da lord Palmstone, per screditare strumentalmente la dinastia delle Due Sicilie, la “negazione di Dio” e che al confronto di quelle piemontesi si potevano definire alberghi a cinque stelle), dove, in una bolgia infernale vengono rinchiusi promiscuamente, senza fare alcuna distinzione di sorta, giovani e anziani, uomini e donne, delinquenti comuni e politici, assassini, ladri, semplici sospettati, sacerdoti e religiosi.
E fu così che, dopo avere saturato con questi infami metodi repressivi eletti a sistema, da Nord a Sud, tutti i penitenziari esistenti e non sapendo più dove mettere “i rifiuti della società” meridionale, si progettò da parte del nuovo Stato italiano di trasportare e relegare questa “spazzatura” in lontane isole oceaniche da chiedere preventivamente in affitto ad alcuni Stati stranieri che avevano la sovranità su quelle isole. Dal Portogallo prima e dall’Argentina dopo, per ragioni di sovranità territoriale e per fortuna delle migliaia di detenuti meridionali da deportare in quelle terre lontane, si ebbe un cortese rifiuto. E fu comunque questa una sorta di “soluzione finale” che il governo sabaudo programmò nel tentativo di dare
Fallito quell’iniziale tentativo con il Portogallo, il governo sabaudo, qualche anno più avanti, quando la capitale del regno si è già trasferita a Firenze, tornerà caparbiamente alla carica con il governo argentino, alla ricerca di una landa desolata in cui deportare i prigionieri meridionali, ossia la Patagonia all’estremo sud dell’Argentina E proprio da Firenze, il 16 ottobre 1868, l’allora capo del governo (lo sarà per tre mandati consecutivi) e ministro degli Esteri ad interim, conte Luigi Menabrea, piemontese doc nativo di Chambery, così al riguardo scriveva all’ambasciatore italiano in Argentina, Enrico della Croce, affinché sondasse con il governo argentino la possibilità, attraverso la vendita, l’affitto o il comodato, la disponibilità a concedere all’Italia delle terre disabitate nelle regioni deserte delle Patagonia con particolare riferimento a quelle bagnate dal Rio Negro, allo scopo di deportarvi i detenuti e i ribelli meridionali. La lettera dell’allora presidente del Consiglio Menabrea all’ambasciatore della Croce così testualmente si concludeva: “Le terre che da noi si potrebbero occupare, a quest’effetto, sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcuno stato. Limitato allo scopo a poc’anzi accennato, l’occupazione territoriale non avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquistare un’importanza politica (lasciando con questo presumere che una volta deportati in quei luoghi i prigionieri sarebbe stati sterminati e massacrati senza pietà lontani dalle pericolose attenzioni e dagli occhi indiscreti delle comunità internazionali). Quindi è che come assolutamente prive di fondamento si dovrebbero sorgere nelle repubbliche meridionali dell’America. Noi facciamo assegnamento particolare sulla sagacità della S. V. per tutto ciò che può agevolare il compito di un disegno (ovviamente si riferiva alla deportazione e allo stermino dei prigionieri meridionali) che, ove potesse attuarsi, riuscirebbe di molto vantaggioso al nostro paese Ella vorrà pertanto – concludeva la sua lettera Menabrea – appena avrà raccolto le necessarie indicazioni riferire al R. Governo il risultamento delle di Lei investigazioni”.
Per fortuna anche il governo argentino, come quello portoghese, per evidenti ragioni di sovranità territoriale, non aderì al criminale disegno del governo Sabaudo e l’ambasciatore Della Croce così tra l’altro relazionava, in una missiva inviata il 10 dicembre 1868 al Presidente Menabrea: “Non ebbi difficoltà a conoscere che la Repubblica Argentina ha preteso e pretende tuttora ad un assoluto diritto di neutralità sulle terre tutte di Patagonia al di là e al di qua dello stretto di Magellano. Ho pure saputo che alla foce del Rio Negro indicato da V.E. la sovranità di fatto della Repubblica Argentina è incontestabile. Dopo questi ragguagli poco speranza mi rimaneva che ai disegni del governo italiano potessero essere favorevoli gli animi di questi governati tanto suscettivi per ciò che si riferisce ai veri o pretesi diritti di sovranità”. Del resto, la necessità di deportare lontano dall’Italia i prigionieri meridionali, per condurli in luoghi remoti e sicuri dove procedere indisturbati, lontani da occhi indiscreti, a programmate pulizie etniche che avrebbero condotto ad una “soluzione finale” tanto agognata, era ormai divenuta una corrente di pensiero comune a molti politici e uomini di governo protagonisti di rilievo del periodo post-unitario, per cui furono esperiti numerosi altri tentativi con diversi governi stranieri per l’ottenimento di territori da adibire a “stabilimenti penitenziari”.
Falliti i tentativi con Portogallo e Argentina, furono avviate richieste per vie diplomatiche a Olanda, Tunisia e all’amica Inghilterra, alla quale tra i territori dei lontani mari furono richiesti il Borneo e l’isola di Socotra, nel Corno d’Africa tra la Somalia e lo Yemen. Significativo, in tal senso, è quanto il milanese marchese Emilio Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri sin dall’iniziale governo Cavour, con venature di immancabile razzismo, per convincere gli inglesi ebbe a dire in un incontro avvenuto a Roma il 19 dicembre 1872 ,all’ambasciatore del Regno Unito Bartle Frere: “Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare – prosegue nelle sue deliranti affermazioni il ministro degli Esteri italo-piemontese – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno (barbari, incivili e pure psicolabili), la pena della deportazione colpisce più delle fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di finire i loro giorni in paesi lontani ed ignoti, vanno con più grande stoicismo incontro al patibolo”. Quindi oltre al patibolo anche la deportazione come “soluzione finale” per terrorizzare al meglio e infiacchire l’orgoglio e lo spirito di resistenza dei meridionali.
Questa era dunque l’aberrante logica che albergava nelle menti e nei comportamenti dei governanti del tempo a proposito delle repressioni da attuare nei confronti dei territori appena 2liberati” o meglio ancora conquistati e della nascente “Questione Meridionale”. Per fortuna, anche l’Inghilterra, come tutti gli altri Paesi precedentemente interpellati, per ragioni di opportunità politica e territoriale fece un fuoco di sbarramento alle richieste del governo italiano, che rimasero criminali intenzioni e delle quali non se ne fece più nulla. Normalmente si dice che non è mai giusto fare un processo alle intenzioni. Questo è uno dei pochi casi, per i disegni e i criminali propositi portati avanti dal governo italiano, in cui è giusto e legittimo farlo, e non è mai stato fatto, e sui quali, malgrado fonti e documentazioni contenute negli archivi della Farnesina e in altri archivi privati e di Stato, la storiografia ufficiale continua pilatescamente a tacere. Fallito miseramente il progetto di “esportazione” dei criminali meridionali in penitenziari o colonie all’estero, si pensò bene a quel punto di potenziare le prigioni sul territorio nazionale e di inasprire le condizioni di vita e di permanenza dei detenuti nelle carceri da Sud al Nord del Paese, tanto da far dire, con ribrezzo e disgusto, al deputato liberale milanese Giuseppe Ferrari, nel suo intervento alla Camera nella seduta del 19 novembre 1962: “Vengono cacciate nelle carceri e fucilate famiglie intere. Il numero delle vittime e dei carcerati è enorme. E questa una guerra da barbari! Se il sentimento vostro morale non vi fa inorridire di camminare sguazzando nel sangue, io non saprò più comprendervi: e quanto io affermo del regno di Napoli, ditelo pure della Sicilia. Là pure si cacciano le genti in prigione e si uccidono a fucilate senza nessun formale procedimento… Versare sangue è divenuto sistema. Ma non si rimedierà al male, versando sangue a torrenti. Nell’Italia meridionale non si crede a siffatto sistema di sangue e chi veste una divisa si crede di avere diritto di uccidere chi non ne porta”.
A Ferrari farà eco qualche mese dopo, nella tornata parlamentare del 18-20 aprile 1963, il napoletano deputato radicale Giuseppe Ricciardi che tra l’altro sosteneva: “Solo a Palermo imputridiscono seminudi tra vermi 1400 prigionieri. Alla Vicaria di Napoli sono stipati ben 1000: i più tra questi non sono stati neppure interrogati e giacciono poi tutti in carceri orribili tanto quanto le carceri di Palermo (che si riempiranno e traboccheranno ancor di più dopo la Rivolta del “Sette e mezzo” che insanguinerà la capitale dell’isola nel settembre del 1866 e di cui parleremo più avanti). Alcuni, senza sapere come, si trovano imprigionati da 22 mesi. Il pane che si dà ai carcerati è tale che io non l’augurerei nemmeno al conte Ugolino. La vita e la libertà dei nostri concittadini – concludeva nel suo accorato intervento l’onorevole Riccciardi – dipende talvolta dal capriccio di un capitano, di un luogotenente, di un sergente o di un caporale”. E ancora più avanti, il 27 gennaio del 1866, nel suo intervento al Parlamento, Pasquale Stanislao Mancini, deputato della provincia di Avellino (che più avanti sarà Ministro della Giustizia del governo De Pretis e si batterà per l’abolizione della pena di morte) sosteneva di non essere in grado, per quante erano, di esporre dettagliatamente e compiutamente le fucilazioni e le carcerazioni arbitrarie decretate dai tribunali militari alle quali l’Europa intera, se ne fosse venuta a conoscenza, sarebbe inorridita. Un secolo prima, nella seconda metà del Settecento, un grande illuminista francese, Francois-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire, sosteneva: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri”. Una citazione che Ferrari, Ricciardi e Mancini avrebbero fatto bene a ricordare a completezza dei loro atti d’accusa nei confronti del governo e per sottolineare, ancora di più, il grado di barbarie e di inciviltà a cui si era pervenuti agli albori dell’unità d’Italia.