Sul Titanic

Tornano le trivelle nel mare di Sicilia, tra Licata e Acate? La memoria corta dei politici

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  • La memoria corta… quella geologica
  • La catastrofe del Vajont
  • La politica sottovaluta i rischi di maremoti che in Sicilia si sono già verificati, da Messina nel 1908 a Sciacca nel 1951
  • I vulcani sottomarini dove le trivelle non dovrebbero mai essere utilizzate 
  • Le società petrolifere che, per interessi economici, cambiano le carte in tavola 
  • I pericoli legati alla repentine liberazione di gas: l’incidente del golfo del Messico, nel 2010, non ha insegnato niente?
  • Caos sulla moratoria: e i petrolieri tornano all’arrembaggio in Sicilia e nell’Adriatico

In questi giorni a Licata e, in generale, nell’Agrigentino, tanti cittadini sono preoccupati. Si parla del ritorno delle trivelle in mare. Cosa, questa, che crea molte preoccupazione. Ne ha parlato il 17 Gennaio scorso il TG di Antudo con dovizia di particolari (dove si parla anche di trivelle a terra e non soltanto in mare). Noi abbiamo chiesto a Domenico Macaluso, uno dei massimi esperti in Italia in materia di tutela del mare e, soprattutto, di conoscenza dei fondali del Mediterraneo di raccontare come stanno le cose. 

di Domenico Macaluso
Responsabile Scientifico WWF Sicilia – Area Mediterranea 

La memoria corta… quella geologica

I tempi geologici presentano un range temporale molto diverso rispetto a quelli dell’orologio biologico, che influenza le attività umane. Grazie al cosiddetto arco diastaltico, a quel sistema di coordinamento tra uno stimolo sensitivo e la reazione dell’organismo, non soltanto ritraiamo istintivamente una mano che accidentalmente si è avvicinata al fuoco, ma sin dall’età infantile riusciamo a memorizzare un evento che può comportare un danno; questa memoria tuttavia è limitata, lunga (o meglio, corta), pressappoco quanto la vita stessa del soggetto che ha registrato l’evento dannoso; tra due eventi geologici che hanno avuto effetti catastrofici per la vita sulla terra, possono invece trascorrere intervalli temporali che vanno dal decennio, fino a milioni di anni: anche la memoria del nostro pianeta è prerogativa dell’uomo, in questo caso dei geologi, capaci di rinvenire tracce di eventi che hanno arrecato danni all’umanità, attraverso lo studio della paleontologia o della geodinamica. E per non dimenticare, i geologi registrano meticolosamente questi eventi, nelle loro pubblicazioni scientifiche, preziosi archivi a disposizione dei politici, che prima di intervenire su di un territorio, mare o terra che sia, devono tenere conto del geo-hazard, cioè rischio insito nella natura di quel territorio, per prevenire effetti disastrosi che in passato si sono già manifestati: ma la memoria di alcuni governanti spesso è flebile e non a causa di un deterioramento cerebrale, ma per condizionamenti estranei alla loro fisiologia…

La catastrofe del Vajont

La catastrofe del Vajont è avvenuta la notte del 9 ottobre del 1963, quando dal monte Tóc, in provincia di Pordenone, si staccò un’enorme frana che, precipitando nella sottostante diga, provocò una gigantesca onda che investì la cittadina di Longarone, radendola al suolo. Già in fase di progettazione dell’invaso, il confronto tra la popolazione ed i committenti, fu aspro: le frequenti scosse di terremoto che interessavano quell’area erano più che un generico allarme: Belluno era stata gravemente danneggiata nel 1863, apparentemente molti anni addietro, ma solo qualche secondo prima, dal punto di vista geologico! E qualche millesimo secondo prima, nel 1960, una frana aveva interessato lo stesso monte Tóc e, sempre nel Bellunese, nel 1959 un pezzo di montagna era scivolata nel lago di Pontesei e l’onda prodotta aveva ucciso il custode della diga. Ma i giochi di potere in cui furono coinvolte le 1917 future vittime di Longarone erano più forti dei loro appelli!

La politica sottovaluta i rischi di maremoti che in Sicilia si sono già verificati, da Messina nel 1908 a Sciacca nel 1951

Relativamente al geohazard in mare, la memoria dei governati è ancora più debole: nel corso della campagna referendaria del 2016 sulle trivellazioni, qualche politico affermava in dibattiti pubblici che, nel nostro mare, il rischio tsunami è pressoché nullo, dimenticando, non certo per vasculopatia sclerotica cerebrale, che la strage di Messina del 1908 fu determinata soltanto in parte dal violento terremoto che distrusse moltissimi edifici, dato che un devastante maremoto che infierì sui poveri superstiti moltiplicò il numero delle vittime! Lo stesso politicante ha dimenticato lo tsunami che l’11 Novembre del 1951 distrusse le strutture portuali di Sciacca, provocando la dispersione della flottiglia peschereccia ed ha rimosso completamente dal suo cervello il maremoto che il 30 Dicembre 2002 investì Stromboli, dopo il collasso in mare di una delle pareti del vulcano!

I vulcani sottomarini dove le trivelle non dovrebbero mai essere utilizzate 

È stato impietoso ascoltare l’intervista di un sottosegretario di Stato, che incalzato dal giornalista Riccardo Giacona dichiarava nella puntata di Presa Diretta del 22 Febbraio 2015 che non esistono altri vulcani nello Stretto di Sicilia, oltre la vecchia Ferdinandea, ignorando il rapporto che avevamo pubblicato nel 2010 “Primi tentativi di monitoraggio dei resti sottomarini dell’eruzione che nel 1831 costruì l’isola Ferdinandea nel canale di Sicilia” dove sono stati rappresentati alti 8 edifici vulcanici sottomarini rinvenuti nel corso di una campagna di ricerca oceanografica. Una collezione recentemente arricchita dal ricercatore dell’Ogs, Emanuele Lodolo, nel Luglio del 2019 ha annunciato il rinvenimento di altri 7 vulcani sottomarini prospicienti le coste sud-occidentali della Sicilia, proprio nell’area interessata da prospezioni finalizzate alla estrazione di idrocarburi! (nella foto sopra tratta da ilfaro24.it alcuni vulcani sottomarini)

Le società petrolifere che, per interessi economici, cambiano le carte in tavola 

Dal canto loro, le società petrolifere fanno il loro gioco, arrivando a cambiare le carte in tavola, nel vero senso della parola, come quando segnalai un’area di vulcanesimo sedimentario in un tratto di mare interessato da prospezioni petrolifere; il cosiddetto campo di pockmark, cioè di crateri formatisi in seguito alla liberazione di metano dai fondali, era riportato in una carta batimetrica distrattamente allegata proprio ad un loro studio di valutazione di impatto ambientale! Ed allora cosa fanno i petrolieri? Semplice: con un’integrazione a quello studio di impatto ambientale hanno proceduto a sostituire quella imbarazzante carta batimetrica con una più innocua, ma obsoleta, dove non era riportata la presenza di vulcani di fango! E dire che queste strutture geologiche, secondo i geologi, rappresentano il rischio maggiore, in caso di ricerca ed estrazione di petrolio: “From the perspective of the petroleum industry, mud volcanoes are a major geohazard”.

I pericoli legati alla repentine liberazione di gas: l’incidente del golfo del Messico, nel 2010, non ha insegnato niente?

Ma c’è dell’altro: oltre al rischio di frane, considerato che il fondo marino in queste aree risulta composto da sedimenti poco consistenti (sloop instability), bisogna tenere conto della liberazione repentina del gas, nel caso che una sacca venga intercettata nel corso di una trivellazione, per gli effetti devastanti dell’espansione del gas o la sua esplosione. Gli studi dove si evidenziano questi rischi rappresentano delle vere e proprie linee guida, di cui tenere conto anche nelle istruttorie di processi giudiziari, dopo disastri ambientali come quello indonesiano del 2006, quando l’eruzione del vulcano di fango LUSI, durante una trivellazione per la ricerca di petrolio, ha determinano l’evacuazione di 30.000 persone; o come quello del golfo del Messico del 2010, quando la piattaforma Deepwater Horizon intercettò accidentalmente dell’idrato di metano che espandendosi, sradicò le strutture da trivellazione: la piattaforma esplose, morirono 11 persone e si sversarono in mare milioni di barili di petrolio, con il conseguente peggior disastro ambientale di tutti i tempi!

Caos sulla moratoria: e i petrolieri tornano all’arrembaggio in Sicilia e nell’Adriatico

E adesso ci risiamo: con la sospensione del provvedimento che bloccava le trivellazioni, previsto nella bozza del decreto Milleproroghe, le società petrolifere tornano all’attacco, con 53 richieste di autorizzazioni, anche in zone calde come Pantelleria (vulcano considerato attivo e con una camera magmatica in espansione), o come nella Valle del Belìce, dove nel lontanissimo 1968, se la memoria non mi inganna, un terremoto lasciò sotto le macerie 300 morti! La memoria di alcuni politici, corta come le gambe delle loro bugie, prova a rimuovere tutto: ci rassicurano che trivellare l’offshore ibleo non è rischioso, dato che in quell’area negli ultimi 30 anni non ci sono stati terremoti di magnitudo superiore a 4 Richter, ignorando la Carta dei Terremoti dell’INGV dal 1985 al 2014, puntellata da pallini arancioni di terremoti superiori al 4° R, come quello dello scorso 22 Dicembre di M 4,4 un terremoto avvertito in tutto il Ragusano, che sembra avere creato un’area di subsidenza nella spiaggia di Acate marina; e si trivella il mare prospiciente Gela, dove già esistono pozzi ENI, ad appena 17 chilometri da un campo di vulcani di fango! E non è tutto, dato che nel trionfo di una criminosa stupidità, viene individuato uno dei siti di stoccaggio di scorie nucleari nel territorio di Butera, provincia di Caltanissetta, in linea d’aria a meno di 19 chilometri dal terremoto dello scorso 22 Dicembre, in quella Val di Noto che, nel 1693, registrò il peggior terremoto della Sicilia in tempi storici, dell’XI grado della scala Mercalli, che rase al suolo decine di città (alcune costruite altrove come Noto) e che uccise circa 60.000 persone! Ma dai … stiamo parlando del 1693!

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