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Gli strereotipi? Possono essere verità anche quando quel “vero” è socialmente sgradito

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La parola “stereotipo” e l’equivalente francese, “cliché”, arrivano entrambe dalle stamperie, dove indicavano le “controimpronte” delle forme di composizione tipografica, pronte ad essere riprodotte senza ulteriore preparazione: pensieri pronti all’uso, per dire. Ormai, più comunemente, descrivono i concetti “preconfezionati” che escono dalla bocca dei polemisti. Però, non è detto che i luoghi comuni non catturino a volte delle verità…

di Nota Diplomatica

Uno stereotipo, almeno in senso sociologico, è una sorta di luogo comune impiegato per descrivere gruppi estesi di persone, attribuendo in blocco alla loro razza, fede, genere, condizione sociale e così via particolari comportamenti e caratteristiche.

Un’esempio – blando- è il comune preconcetto che le persone che portano gli occhiali siano più intelligenti. Strano a dirsi, ci sono eccellenti prove scientifiche a dimostrare che sia proprio così, si sospetta per un ipotetico meccanismo genetico.

La storia delle bionde “sceme” invece è stata smentita da una ricerca americana condotta su un campione di 10mila soggetti per studiare il rapporto tra il colore dei capelli e il quoziente intellettivo. Le bionde sono risultate le più intelligenti, con un QI medio di 103,2 rispetto alle castane (102,7), le rosse (101,2) e le corvine (100,5).

Con le guerre culturali odierne, particolarmente tra gli anglosassoni, gli stereotipi sono molto malvisti, da scartare come falsi a priori, senza pensarci troppo su. Perfino la ricerca sul tema è considerata accademicamente pericolosa. C’è il rischio di rovinarsi la carriera confermando per sbaglio qualche luogo comune impopolare.

Eppure, per citare le conclusioni di un gruppo di studiosi guidato dal Prof. Lee Jussim, Preside della facoltà di Psicologia della Rutgers University:

“La validità degli stereotipi è uno dei più importanti e più replicabili effetti nell’intero campo della psicologia sociale”.

Per dire, gli stereotipi non arrivano dal nulla, corrispondono in qualche modo al vissuto di chi li impiega, e mentre non è detto che siano
sempre corretti, sono serviti – anche per secoli – come “regole di vita”.

Oggi, il tentativo è di cambiare la realtà attuale parlandone diversamente e disconoscendo fatti che contrastano con il mondo che vorremmo trovare attorno a noi. È, in grande, la stessa operazione che ha trasformato gli spazzini in operatori ecologici.

Purtroppo, ne nasce l’obbligo a credere a delle cose che a volte – e quando conta – sappiamo essere non esattamente vere… Possono esserci dei fatti macroscopici – e forse d’importanza vitale – che non combaciano con il mondo che pensiamo di costruire.

Fa un certo effetto leggere i dati del Center for Disease Control del Governo
Usa sulle principali cause di mortalità dei giovani neri. Tra i maschi “Non-Hispanic black” la prima causa di morte, di molto, nel gruppo d’età da 1 a 19 anni è – al 35,2% – l’omicidio. Del resto, l’omicidio è anche la prima causa di morte (28,9%) tra i neri dai 20 ai 44 anni. Dai 45 anni si può finalmente morire per una malattia cardiaca e gli omicidi calano a un misero 1,9%.

Ne viene fuori il classico paradosso del “liberal” di New York che di giorno sente di dover predicare una versione idilliaca dei rapporti tra le razze nella sua città e poi, la sera quando i figli escono, deve trovare il modo di ricordargli di non andare nei quartieri neri perché potrebbe essere pericoloso.

Il problema con gli stereotipi non sta nel fatto che possano avere una parte di verità anche quando quel “vero” è socialmente sgradito: il problema è che, come capita con tutte le tipologie di luoghi comuni, troppo spesso si sostituiscono al pensiero.

Foto tratta da Psya Italia

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