Dai primi anni ’60 del secolo passato fino a quando ha lasciato questa Terra, Michele Perriera è stato un grande protagonista della vita culturale di Palermo e della Sicilia. Non è stato mai amico del potere in tutte le sue forme e il potere, in tutte le sue forme, non si è mai fidato di lui. E questo lo rende unico
di Francesco Terracina
Annunciata da una sfilata di Dolce&Gabbana, nel 2018 Palermo fu “Capitale italiana della cultura”, una specie di concorso a premi bandito dal Ministero. La designazione avvenne il 29 Gennaio, le attività cominciarono il successivo Giugno. Per tutto l’anno non si parlò d’altro, e soprattutto passò l’idea che Palermo si era liberata dalla mafia attraverso la cultura elargita da Manifesta, niente di più che una biennale itinerante che in quell’anno fece tappa in una Palermo a corto di iniziative. Il municipio da parecchi anni fornisce il rating alle attività culturali e questo può accadere senza alcuno scandalo nel tempo della politica rotocalco e del giornalismo che ne segue le orme. L’11 settembre di quest’anno ricorre il decimo anniversario della morte di Michele Perriera, giornalista, drammaturgo, scrittore, fondatore, nel 1978, della scuola di teatro Teatès, durata un trentennio e svanita con lui. Sono i teatri a mantenere vivi i teatri. Tutte le cose importanti, come sosteneva Samuel Butler, attingono le loro suggestioni da altre cose importanti. E oggi c’è Dolce&Gabbana che, beninteso, fa benissimo il proprio mestiere. Qualcuno crede davvero che in un clima come questo ci sia spazio per proseguire la strada imboccata da Perriera?
Palermo dice a parole di rimpiange il regista, l’intellettuale, l’uomo del Gruppo 63. Perriera non è stato dimenticato, ma rimosso, e con lui tutto ciò che la “nuova” era considera obsoleto. Della cultura sopravvive l’aspetto propagandistico: comincia al teatro Massimo e finisce al teatro Biondo. Una linea di cinquecento metri, che comprende l’area pedonale di via Maqueda (dove sfilarono le modelle di Dolce&Gabbana), un suk dove è palpabile la tristezza di chi si muove in quel tratto di strada nel fallimentare tentativo di verificare su se stesso il rispetto del canone di felicità suggerito dalla civica amministrazione.
Perriera, che amò le periferie e rincorse il non detto, tentò in ogni modo di garantire la sopravvivenza alla sua creatura; ma lui, evidentemente, non dava garanzie, non si regolava secondo appartenenze politiche o amicali. Era nemico del potere per deduzione: nel senso che non ne era amico. E questo bastava a suscitare diffidenza, quella diffidenza che nel 1991 consigliò l’amministrazione pubblica a non affidargli la direzione artistica dello Stabile di prosa.
Isahia Berlin sosteneva che discutere di idee sotto Stalin significava provocare risposte scontate da parte di alcuni e mettere in difficoltà quelli che restavano zitti. Stalin è morto, e dunque non è per questo che l’intellighenzia ha smesso di occuparsi dell’eredità di Perriera. Forse è tutta proiettata nel fare e disfare piste ciclabili e Zone a traffico limitato, il “nuovo” che impegna soprattutto la sinistra imbianchina. Non c’è spazio per il teatro se non nelle sue forme istituzionali, cioè nella rappresentazione della rappresentanza. La censura non è tale se è dichiarata. Quella dei nostri tempi attiva forme soavi di conquista: è accogliente, moderata, rassicurante e si attiene alle regole.
Ma l’ottimismo torna se si guarda a Perriera, che ha fatto in tempo a esperire la verità nell’unica forma credibile: adaequatio rei et intellectus, uguaglianza di pensiero e realtà. O se preferite, dire quello che si pensa e pensare, riflettere, su quello che si dice. Non è la nostalgia del passato a suggerire tutto ciò, ma averlo visto all’opera, magari mentre discuteva al giornale L’Ora con Mario Farinella: parlavano per impressioni, per pennellate, che si trattasse di un omicidio o dell’ultima rappresentazione del Machbet, con i sensi in allerta e l’intelligenza a far da moderatrice. L’Ora ha chiuso, Perriera è morto. E con lui anche gli intellettuali incuriositi da ciò che accade intorno a loro.
Non dimentico che nel 1987, una vita fa, mettemmo su uno spettacolo futurista al Voltaire, un locale di via Libertà, a pochi passi dal Politeama. Con una certa sorpresa, i giornali locali se ne occuparono. La pièce fu replicata qualche settimana dopo in un sotterraneo di via Laurana, l’Alibi Club. Si erano appena spente le luci, quando nell’ultima fila si sedette un signore con gli occhiali scuri: era Michele Perriera. Aveva pagato il biglietto per assistere allo spettacolo. Attese la fine e andò via. Chissà, magari non gli era piaciuto e non voleva dircelo. Nel cast c’era un’attrice che avrebbe fatto molta strada, ma questo è un altro discorso.
Di quell’episodio rimane il fatto che Perriera sentì il bisogno di dare un’occhiata, di vedere quello che succedeva in giro. La sua era una cultura dell’attenzione, di cui si sente tanto la mancanza. Affascinato dal femminile, scommetteva sulla sensibilità delle donne e auspicava che la loro diversità non si omologasse a quella maschile, soprattutto negli aspetti della prevaricazione. Ecco, questo è il punto: da non omologato, nutriva una certa antipatia per Leonardo Sciascia (certamente un non omologato), che riteneva culturalmente un provinciale. Ma le sue analisi non erano mai liquidatorie e definitive e così Sciascia era, sì, un provinciale, ma con antenne molto sensibili, ammetteva.
Foto tratta da Il Gazzettino di Sicilia