La crisi può essere reale, ma anche inventata e narrata come vera. Grazie al terrore arriva l’emergenza, nel nome della quale il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile
di Diego Fusaro
Dal punto di vista del potere, il segreto resta sempre il medesimo: il suo cuore è la percezione di una minaccia costante, reale o narrata che sia. Chi è terrorizzato, infatti, si trova in una posizione di evidente subalternità e di paralisi dell’azione e del pensiero: è, pertanto, disposto ad accettare qualsivoglia intervento giunga dall’alto, a patto che, naturalmente, si presenti come salvifico. Si regredisce, grazie al terrore, alla “condizione di minorità” da cui l’Aufklärung di Kant aspirava a farci uscire: non si ha il coraggio di servirsi della propria testa.
La crisi e l’emergenza si riconfermano come metodi di governo per chi voglia approfittare della situazione o, alternativamente, produrla. Lo sapeva anche uno dei protagonisti del pantheon dei liberisti, il Milton Friedman di Capitalismo e libertà (1962):
“Soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano […] fintantoché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”.
Non si trascuri la precisazione di Friedman: la crisi può essere reale, ma può anche essere semplicemente percepita e narrata. In ogni caso, grazie al terrore e allo stato d’eccezione si è disposti ad accettare come salvifico nell’emergenza ciò che apparirebbe inammissibile nella normalità: appunto, il politicamente impossibile si rovescia in politicamente inevitabile.
L’ha, da una diversa angolatura, chiarito anche la Naomi Klein di Shock Economy: se si “getta l’intera popolazione in uno stato di shock collettivo”, essa tollera ciò che, senza tale shock, sarebbe pronta a respingere. Scrive Naomi Klein:
“Capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti”.
In un diverso contesto, Zbigniew Brzezinski nella Grande scacchiera (1997) menziona il caso di Pearl Harbor: prima di quell’evento, la popolazione statunitense era contraria alla guerra. Ma, dopo l’attacco giapponese, l’opinione pubblica cambiò di segno: e divenne favorevole a ciò a cui fino a poco prima era contraria.
Qualcosa di simile accadde l’11.9.2001, dopo l’attacco alle Torri Gemelle: la nuova “crociata globale” contro il terrorismo, che in una condizione di normalità mai sarebbe stata accettata, divenne assai spesso oggetto di plauso. Dalle colonne del “Manifesto” (26.2.2020), Giorgio Agamben ha impiegato questo modello come via ermeneutica privilegiata per intendere la pandemia e la nuova emergenzialità politica: il nuovo stato di paura – spiega Agamben – “si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”.
La conseguenza è che, forse, più della pandemia in sé considerata bisognerebbe temere la paura generalizzata della pandemia e le conseguenze politiche che essa sta già rendendo platealmente evidenti per quel che concerne la svolta autoritaria. In fondo, aveva ragione Montaigne:
“La paura è la cosa di cui ho più paura”.
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