La storia di 45 extracomunitari richiedenti asilo sfruttati fino all’inverosimile nelle campagne di Forlì, Rimini e Ravenna. Pagati 50 euro al mese per raccogliere frutta e verdura o potare gli alberi per 80 ore alla settimana! Il ‘caporalato’ è presente dal Nord al Sud. Una proposta per tutelare lavoratori e aziende agricole
Regione italiana che vai, ‘caporalato’ che trovi!
Come abbiamo scritto più volte, il ‘caporalato’ – ovvero l’odioso sfruttamento di lavoratori in agricoltura – riguarda tutta l’Italia, da Nord a Sud.
Oggi, sul quotidiano la Repubblica leggiamo la seguente notizia:
“Guadagnavano cinquanta euro al mese per raccogliere frutta e verdura o potare gli alberi, lavorando fino a 80 ore alla settimana. Così sono stati trattati, secondo le indagini della squadra mobile di Forlì circa 45 richiedenti asilo, in gran parte pachistani e afghani, sfruttati nei campi da un’organizzazione che li alloggiava in casolari senza acqua calda e con poco cibo e materassi a terra. Arrestati quattro pachistani, nell’ambito di un’operazione contro il ‘caporalato’, con l’ispettorato del lavoro e l’Inail. Gli indagati avrebbero reclutato direttamente i lavoratori, minacciati e intimiditi, accompagnati controllati quotidianamente, oltre che individuato e gestito i committenti. Si stima che abbiano guadagnato dagli 80 ai 100mila euro, inviati attraverso i canali western union o money gram in Pachistan su conti di persone fittizie. Denunciati anche titolari di aziende agricole romagnole che hanno impiegato gli stranieri”.
Insomma, un odioso sfruttamento di lavoratori extra comunitari da altri extracomunitari.
“Erano state costituite anche due ditte individuali – prosegue l’articolo – risultate poi fittizie in quanto gli indirizzi indicati corrispondevano a immobili in stato di abbandono. Ai lavoratori veniva promessa una retribuzione oraria di cinque euro netti, a fronte dei 9,6 euro previsti dalla legge, che si tramutavano in 250 euro mensili di cui 200 decurtati per il vitto e l’alloggio. A loro volta gli indagati ricevevano dai committenti una quota di 12-13 euro netti ad ora per lavoratore rispetto ai 20 che avrebbero dovuto versare per ogni operaio. Per questo sono stati denunciati in stato di libertà i titolari delle aziende agricole di Forlì, Rimini e Ravenna che da settembre a gennaio hanno impiegato i lavoratori, che non disponevano di approntamenti di cantiere, e non era loro consentito espletare durante il lavoro i propri bisogni fisiologici o consumare un pasto in ambiente ‘riparato'”.
Sfruttamento allo stato puro, insomma!
Non è la prima volta che affrontiamo questo tema. Lo abbiamo fatto qualche giorno fa, quando abbiamo commentato la difficoltà in cui versa oggi l’agricoltura italiana a causa della mancanza di manodopera in agricoltura:
“Ci voleva il Coronavirus per capire che l’agricoltura italiana va avanti senza braccianti agricoli italiani? (oggi li chiamano operai agricoli). Ma guarda un po’: oggi si scopre che in Italia, causa emergenza sanitaria, mancano quasi 400 mila braccianti agricoli o operai agricoli che, nel Centro Nord del Paese, sono in buona parte rumeni, bulgari, polacchi e, in minima parte, africani, mentre nel Sud prevalgono questi ultimi – gli africani – anche se non mancano i rumeni”.
In questo articolo abbiamo sottolineato che se in Italia gli italiani non vogliono più svolgere l’attività di bracciante agricolo è perché, per questo lavori, tante aziende agricole sfruttano la manodopera extra comunitaria sfruttandola.
Non sono gli italiani che sono diventati vagabondi: il fatto è che nessun italiano vuole lavorare nei campi per una paga miserabile!
Come abbiamo letto, in Emilia Romagna – Regione ‘rossa’ per antonomasia – i braccianti agricoli extra comunitari “Guadagnavano cinquanta euro al mese per raccogliere frutta e verdura o potare gli alberi, lavorando fino a 80 ore alla settimana”.
Ci siamo occupati del ‘caporalato’ quando è stato condannato un imprenditore agricolo siciliano.
Il nostro approccio, rispetto a questo fenomeno, è di ferma condanna per lo sfruttamento. Ma non possiamo non affrontare la questione dal punto di vista economico-problematico. Lo abbiamo fatto per la Sicilia, ma il nostro ragionamento – che riproponiamo – vale per tutta l’Italia:
“Nella nostra Isola, ormai da tempo, arrivano prodotti agricoli coltivati in luoghi del mondo dove il costo del lavoro in agricoltura è di gran lunga inferiore al costo del lavoro in Italia. Ovviamente, la risposta a questo problema non può essere il ‘caporalato’, ovvero lo sfruttamento di manodopera che, spesso, è composta da persone che arrivano da vari Paesi del mondo (l’Africa, ma anche la Romania, per citare casi molto presenti). Non è lontanamente pensabile sottopagare e sfruttare i lavoratori solo perché in tanti Paesi poveri del mondo una giornata di lavoro, in agricoltura, viene retribuita, in media, 4-5 euro, a fronte dei 60-70 euro al giorno che vengono pagati in Italia”.
“Però il problema esiste. In Sicilia, ad esempio, la superficie coltivata a pomodoro di pieno campo si va riducendo perché, con tutto il pomodoro che arriva dalla Cina e dall’Africa, il prezzo è crollato e molti agricoltori preferiscono non coltivarlo più. Il problema è duplice. Riguarda gli agricoltori che abbandonano la coltura del pomodoro di piano campo. Ma riguarda anche i consumatori – in questo caso in consumatori siciliani – che alla fine sono costretti a portare in tavola pomodori prodotti chissà dove con chissà quali metodologie agronomiche. Spesso, in altre parti del mondo, ci vanno assai pesante con i pesticidi, magari utilizzando prodotti chimici che nel nostro Paese sono stati banditi da anni perché dannosi per la salute umana. Così al problema degli agricoltori siciliani, che non coltivano più certi prodotti agricoli perché poi non sanno a chi venderli, c’è anche il problema dei consumatori, costretti a portare in tavola prodotti di pessima qualità, talvolta anche dannosi per la propria salute!”.
“Abbiamo citato il caso del pomodoro di pieno campo: ma ci sono tanti altri ortaggi che subiscono la concorrenza di prodotti esteri, spesso di pessima qualità, che hanno però il pregio di costare pochissimo perché, dove vengono prodotti, i costi di produzione – costo del lavoro in testa – sono molto più bassi! E’ il caso, ad esempio, della frutta estiva: non potete immaginare, ogni estate, quanti siciliani (ma non soltanto siciliani) ci scrivono in privato chiedendoci dove poter trovare frutta estiva buona, perché quella che acquistano non ha alcun sapore!”.
“Esiste la soluzione a questo problema? Noi non abbiamo la bacchetta magica. Ma di una cosa siamo certi: la soluzione non può essere il ‘caporalato’, che è un reato: reato che si può concludere con una pesante condanna! E allora? Una soluzione potrebbe essere la cosiddetta filiera corta: fare in modo che i consumatori si avvicinino all’agricoltura e acquistino direttamente dai produttori agricoli e dagli allevatori. In questo senso, i mercati contadini sono importanti. Ma questa non può essere l’unica soluzione. Bisogna intervenire alla radice del problema, riducendo il costo del lavoro agricolo. Come? A nostro avviso con i fondi europei destinati all’agricoltura. Che potrebbero essere utilizzati, in parte, per abbattere il costo del lavoro. Si tratta solo di organizzare la ‘macchina’. Le aziende agricole – il nostro è solo un esempio – pagherebbero il 30% del costo di una giornata di lavoro in agricoltura; il 70% sarebbe a carico dei fondi Ue. Non sarebbe difficile. Ci vorrebbe solo un po’ di volontà politica. Senza creare inutili passaggi burocratici. Questa soluzione, oltre ad agevolare le imprese agricole, farebbe emergere il lavoro nero, con soddisfazione dello Stato”.
QUI L’ARTICOLO DE LA REPUBBLICA
Foto tratta da Piazzasalento
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