Ce lo chiediamo dopo aver appreso che l’ISMEA – ente di Stato – sta mettendo in vendita 10 mila ettari di terreni agricoli abbandonati che, per circa il 70%, si trovano, guarda caso, in Sicilia, in Puglia e in Basilicata. Non per essere sempre Bastian contrari, ma se l’agricoltura è in crisi chi risponderà a questo bando? Per carità, lo Stato farà ‘cassa’, ma noi siamo un po’ perplessi
Mentre i giovani italiani abbandonano l’agricoltura, si registra un’iniziativa piuttosto singolare da parte dell’ISMEA (l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), ente pubblico italiano che opera in agricoltura: la messa in vendita di circa 10 mila ettari di terreni agricoli dislocati, per quali il 70%, nel Sud Italia e, in particolare, in Sicilia, in Puglia e in Basilicata.
I terreni potranno essere acquistati in rate semestrali o annuali da pagare in 30 anni. La scadenza del bando è il prossimo 19 Aprile.
Da quello che è dato sapere, si tratta di terreni in parte abbandonati da alcune pubbliche amministrazioni (che, in alcuni casi tali amministrazioni non sapevano nemmeno dell’esistenza stessa di queste proprietà) e in parte tolti agli agricoltori travolti dai debiti.
Per la cronaca, ricordiamo che negli anni passati c’è stato un ricorso improprio ai fondi ISMEA; oggi la situazione è mutata, perché non appena non si pagano le rate gli agricoltori perdono i terreni.
Perché a noi non convince questa iniziativa dell’ISMEA? Perché non riteniamo che l’agricoltura italiana in generale e meridionale in particolare, oggi, offra molto a chi vive e opera in questo settore.
Noi ci occupiamo spesso di agricoltura. E se è vero che, ancora oggi, c’è chi gestisce con successo le aziende agricole, è anche vero che – soprattutto nel Sud Italia – è sempre più difficile fare agricoltura.
La vicenda del grano duro – coltura d’elezione nel Sud Italia – è emblematica. Solo in questi ultimi mesi il prezzo di questo cereale è cresciuto un po’, dopo che per anni è stato inchiodato a 18-20 euro al quintale (prezzo irrisorio, che non ripaga nemmeno le spese).
Lo stesso discorso vale per altre colture – frutta e ortaggi – che subiscono la concorrenza sleale di frutta e ortaggi che arrivano dai Paesi asiatici e dall’Africa, ma anche dalla Spagna e dal Sudamerica.
Affermare che l’acquisto di tali terreni, da parte soprattutto di giovani agricoltori, sia un grande affare non rende giustizia alla verità dei fatti. La realtà – soprattutto con riferimento a circa il 70% di questi terreni, che insistono nel Sud – è ben diversa.
Forse il vero affare lo farebbe lo Stato, che vendendo questi terreni incasserebbe un bel po’ di quattrini: sia per la vendita degli stessi terreni (le previsioni dicono che la vendita consentirà allo Stato di incassare 130 milioni di euro circa), sia per le tasse che i nuovi proprietari comincerebbero a pagare (oggi lo Stato non incassa nulla da questi fondi).
O forse il vero affare lo potrebbero fare gli investitori esteri, che diventerebbero proprietari di questi terreni?
Noi non sappiamo come stanno le cose e che cosa ci sia dietro a questa mossa. Sappiamo, però, alcune cose.
Sappiamo che il costo del lavoro in agricoltura, in Italia, è dieci volte (e forse più) maggiore del costo del lavoro in agricoltura dei Paesi asiatici e africani): e, di conseguenza, i nostri prodotti non reggono la concorrenza con i prodotti agricoli asiatici e africani.
Se le aziende agricole italiane chiudono – e i titolari di tali aziende agricole sono costretti a cedere i terreni ai creditori e, magari, alla stessa ISMEA – è proprio perché molte produzioni agricole italiane, pur essendo di qualità, non possono reggere la concorrenza con le produzioni straniere.
Sappiamo che in Italia è in atto una doverosa lotta al ‘caporalato’ (leggere sfruttamento di manodopera in agricoltura)
Ma sappiamo anche non si fa nulla per aiutare le aziende agricole a ridurre il costo della manodopera.
Proprio ieri abbiamo pubblicato un articolo nel quale segnaliamo le grandi difficoltà alle quali vanno incontro gli agricoltori siciliani: difficoltà che Cosimo Gioia ha ben sintetizzato nella seguente riflessione:
“Ma come si fa ad aspettare per la visita medica preliminare 4/5 giorni per l’appuntamento col medico e poi altri giorni per le analisi e quant’altro? Ci si rende conto che, in agricoltura, ci sono dei lavori urgenti come trattamenti o altro che devono essere fatti con la massima urgenza? Ad esempio, sostituire un guardiano di pecore che ha la febbre: le pecore non vanno al pascolo o non vengono munte finché non rientra il titolare? Boh… Ma ne capiscono niente i legislatori? E le associazioni di categoria? Silenzio…”.
Sia chiaro: l’immissione di terreni agricoli, oggi abbandonati, nell’agricoltura italiana è un fatto positivo. E questo non vale soltanto per il 70% circa di terreni del Sud Italia, ma anche per il restante 30% circa di fondi agricoli abbandonati che si trovano in Liguria, in Lombardia, in Emilia Romagna, in Umbria, in Toscana e in Veneto.
I nostri dubbi riguardano il futuro di questi terreni agricoli oggi abbandonati: magari saranno rilevati da imprenditori agricoli bravi e supereranno i problemi di questo settore.
Detto questo, aspettiamo di conoscere i nomi – e soprattutto la nazionalità – dei possibili acquirenti per capirne di più.
Foto tratta da Avvenire