Pubblichiamo questo articolo del 2012. Sembra incredibile come l’autore, sette anni fa, abbia previsto tutto quello che sarebbe successo dopo. Ancora oggi, a Taranto, per un pezzo di pane avvelenato, si tiene aperta un’acciaieria che inquina l’ambiente. La differenza con Genova, dove l’acciaieria è stata chiusa proprio perché inquinava. Ad ammalarsi e a morire, per l’acciaio italiano, hanno lasciato i meridionali di Taranto
di Gianluca Coviello
(tratto TarantoOggi 9 agosto 2012)
Taranto, dunque, non è Genova per la politica italiana e il Sud non è il Nord. Lo si evince dai fatti, dalle parole, dalle prese di posizione. C’è una storia che nessuno vuole che venga raccontata da Roma in giù impedendo una reale presa di coscienza della gente ed una reazione di difesa contro chi dai palazzi di potere vorrebbe decidere chi può morire e chi no, chi può respirare l’aria inquinata e chi no, chi può salvarsi e chi no.
La storia sembra ripetersi senza risparmiarne gli errori. E’ la storia del Sud, quella che non si trova nei libri di scuola ma nelle ricostruzioni di attenti cronisti. La guerra di unificazione conclusa nel 1862, fu in realtà un’azione di invasione del settentrione; una ‘piemontizzazione’ selvaggia ed aggressiva della penisola.
“Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato per consentire lo sviluppo del Nord”, riporta puntualmente lo scrittore Pino Aprile nel suo libro ‘Terroni’. Come dargli torto visto che ai tempi dell’unità il divario tra le due metà del Paese non era ampio come lo è oggi.
“Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi”, ancora Pino Aprile, ancora ‘Terroni’. Sprazzi di storia che riaccendono l’attenzione sul peccato originale che oggi, anche a Taranto, i meridionali pagano caro. Lì ha origine quella colonizzazione che molti anni dopo ebbe seguito anche nelle politiche di industrializzazione.
Le discariche e le industrie più pericolose, più inquinanti, hanno trovato posto in un Sud che non ha mai strutturato una classe politica in grado di riequilibrare la sudditanza di partenza (o forse il gap di potere e rappresentatività era davvero troppo ampio). La necessità di dare una risposta alle esigenze occupazionali, poi, fu, come è tutt’oggi, il miglior viatico all’affermazione degli interessi ufficialmente definiti ‘nazionali’.
Le due ‘Italie’ – Anche nell’approccio alle problematiche più delicate emergono diversità di trattamento tra le due ‘Italie’. Quanto sta accadendo in queste settimane a Taranto, infatti, non può non essere messo a confronto con quando a Genova la stessa Ilva, sempre l’area a caldo, fu bandita per sempre. Per Taranto c’è l’obbligo della convivenza col mostro dell’acciaio, alla città Ligure invece fu ‘concessa’ la facoltà di ribellarsi senza dover lottare contro tutto e tutti ma, addirittura, scoprendo ogni giorno nuovi alleati, anche nello Stato. E quando si entra nel merito della vicenda genovese, dove protagonista negativo fu sempre il Gruppo Riva, le analogie sono tali da far gridare di rabbia i cittadini di Taranto, di serie B.
Genova: quando la chiusura era cosa buona e giusta – Era il 2002 quando, precisamente nel quartiere di Cornigliano, furono chiuse per sempre le cokerie. Inquinavano e ad affermarlo fu uno studio epidemiologico che evidenziò una relazione tra polveri respirabili (diametro inferiore o uguale a 10 micron o PM10) emesse dagli impianti siderurgici e gli effetti sulla salute. Lo studio nel quartiere di Cornigliano prendeva in considerazione le emissioni emesse nel periodo 1988-2001. La mortalità complessiva negli uomini e nelle donne risultò costantemente superiore ai dati rilevati nel resto della città ligure.
Nel luglio 2005 fu poi spento anche l’altoforno numero 2 dello stabilimento. Il tutto attraverso un’azione lineare di tutti: dalla magistratura alla politica locale finanche quella nazionale. Ognuno svolgendo il proprio lavoro senza scivolare in quello degli altri: dal ministro dell’Ambiente all’ultimo rappresentante istituzionale.
Le mappe epidemiologiche furono svolte nella loro interezza con un lavoro certosino che non ebbe difficoltà a pescare in risorse certe. Furono stanziati soldi veri, quelli che per Taranto non sono mai arrivati dagli enti che in realtà sarebbero stati preposti a farlo (i 100 mila euro stanziati dalla Regione lo scorso anno sono serviti appena ad avviarle e per settembre sono previsti i primissimi dati). Il Governo, poi, invece di osteggiare in tutti modi anche il lavoro dei magistrati come nel caso Taranto, si impegnò con l’azienda affinché la chiusura di tutto ciò che non fosse lavorazione a freddo avvenisse nei tempi e nei modi meno traumatici per l’Ilva e per la città. Oggi che in discussione c’è proprio quell’impianto che si trovò a dover sopperire alla rinuncia ligure, l’atteggiamento è invece quello del colonizzatore, proprio come durante e dopo l’annessione del Sud al Piemonte nel 1862. E poco o nulla conta che lo stabilimento genovese era ed è più piccolo di quello ionico.
A Genova sì alla chiusura, a Taranto no – “Oggi non si interrogano più sulla compatibilità con la salute. A Genova lo fecero e ci dettero ragione”
Al riguardo le parole di Federico Valerio, chimico ambientale che nel 2002 fu perito dell’accusa nel procedimento che portò alla chiusura della cokeria di Genova, risuonano sempre più nelle menti dei tarantini come un triste presagio.
“In questi giorni la maggiore preoccupazione del Ministro dell’Ambiente, del presidente della Regione, dei sindacati, è quella di impedire la chiusura dell’attività produttiva”, afferma Valerio -. Pare che nessuno si preoccupi di capire se questa attività produttiva è compatibile con il rispetto degli obiettivi di qualità dell’aria e quindi della salute di chi quell’aria respira. In base all’esperienza genovese, possiamo prevedere quale sia la soluzione per Taranto. La tecnologia delle cokerie di Taranto e di Genova è quella degli anni ’50, assolutamente inadeguata a rispettare i limiti di legge e almeno dieci volte più inquinante delle moderne cokerie che applicano la migliore tecnologia disponibile. Anche per queste nuove cokerie vale la regola, rispettata in gran parte del mondo e basata sul principio di precauzione, di costruire questi impianti ad almeno due chilometri di distanza da zone abitate e da usi del territorio sensibili, quali produzione agricola, allevamenti animali, allevamenti di molluschi, usi presenti a Taranto e già pesantemente penalizzati”.
“Temo di fare una facile profezia – dice ancora il chimico -: prevarranno gli interessi industriali e il governo dei tecnici troverà qualche accorgimento ‘tecnico’ (deroga, innalzamento dei limiti) per continuare a produrre, inquinando. E in questo caso l’unica bonifica sensata dovrebbe essere di trasferire tutti i 18.000 abitanti a rischio in una ‘New Tamburi’ ad alcuni chilometri di distanza sopravento all’area industriale, ipotesi nient’affatto fantascientifica, visti i tempi: immaginate quanto tutto questo, inciderà sulla crescita del PIL. Comunque – conclude lapidario il chimico ambientale – continuare a produrre acciaio in questo modo non credo che sia una buona scelta per i lavoratori dell’Ilva, giustamente preoccupati di perdere il loro lavoro: la competitività mondiale nella produzione dell’acciaio non si vince con impianti obsoleti, prossimi alla rottamazione e poco efficienti, proprio perché molto inquinanti”.
Taranto non è Genova, il Sud non è il Nord… – Taranto, dunque, non è Genova per la politica italiana e il Sud non è il Nord. Lo si evince dai fatti, dalle parole, dalle prese di posizione. C’è una storia che nessuno vuole che venga raccontata da Roma in giù impedendo una reale presa di coscienza della gente ed una reazione di difesa contro chi dai palazzi di potere vorrebbe decidere chi può morire e chi no, chi può respirare l’aria inquinata e chi no, chi può salvarsi e chi no.
C’è il Sud nella vicenda Taranto, molto più di quanto vorrebbero far credere. I primi a capirlo sembrano essere stati gli stessi operai che, per la prima volta in modo così organizzato e partecipato, non si accontentano più del pezzo di pane avvelenato sudato in fabbrica. Chiedono prospettive nuove per il territorio, per la città, e solidarizzano con chi ha già perso il lavoro a Taranto per colpa dei veleni (dai mitilicoltori agli allevatori). Stanno dimostrando che sempre meno operai nell’Ilva sono disposti a prestare il volto reale ai personaggi fantasiosi di Paolo Villaggio al cospetto del ‘mega direttore galattico’. In pochi sanno infatti che l’attore ligure lavorò nel centro direzionale di Carignano a inizio anni Sessanta. Fu quasi certamente in quella circostanza che, impiegato nella collegata Cosider (anch’essa del gruppo Finsider poi trasformata in Ilva nel 1988), maturò l’ispirazione per i suoi personaggi di maggiore successo. Dipendenti caratterialmente deboli e pronti ad abbassare la testa. In queste settimane, e ancora di più nelle prossime, Villaggio troverebbe a Taranto molti meno Ugo Fantozzi e Giandomenico Fracchia di quelli che raccontò sulla base dell’esperienza maturata cinquant’anni fa. E’ forse il vento che cambia sostenuto dal sospiro di chi non si arrenderà mai.
Foto tratta dal Quotidiano di Puglia
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