Nello studio “Shocks to military support and subsequent assassinations in Ancient Rome”, due ricercatori canadesi – Cornelius Christian, della Brock University e Liam Elbourne, della St. Francis Xavier University –
suggeriscono che le brutte fini imperiali dipesero in non poca parte dalla pioggia. La tesi è bizzarra, ma ha un perché
di Nota Diplomatica
La domanda è semplice, la risposta meno. Quanto durò l’Impero romano?
Escludendo la Repubblica romana – e anche Cesare, che fu “dittatore” e non “imperatore”- bisogna partire da Augusto, che assunse il titolo nel gennaio del 27 a.C. Si concluse cinquecento anni dopo con Romolo Augustolo, nel 476, una data che per convenzione segna la fine dell’Impero romano
d’Occidente e l’inizio del Medioevo, senza dare retta ai Bizantini, dei greci che si atteggiarono da “Romani” e secondo i quali l’Impero durò altri mille anni, fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453.
Oggi ci occupiamo degli Imperatori occidentali perché c’è un mistero. Mentre il loro Impero era certo duraturo secondo gli standard moderni, loro non lo erano altrettanto. Morivano come mosche e spesso in maniera atroce. La storia imperiale ricorda infatti un “Anno dei Quattro Imperatori” (69 d.C.), “dei Cinque Imperatori” (193 d.C.) e perfino “dei Sei Imperatori” (238 d.C.).
Ciò malgrado – e non di rado a causa di – una guardia personale sterminata, i Pretoriani, che arrivò a toccare i 9 mila effettivi. Non iniziò male: Augusto regnò per 41 anni, Tiberio per 23. Poi c’è stato il “singhiozzo” di
Caligola, ucciso dai Pretoriani; di Claudio, avvelenato da Agrippina; e di Nerone, “suicidio assistito”.
Cominciò ad andare maluccio, con Galba (di nuovo i Pretoriani), Otone (suicida) e Vitellio (assassinato dai sostenitori di Vespasiano). I loro regni durarono rispettivamente sette mesi, tre mesi e otto mesi.
Degli 82 Imperatori nel mezzo millennio dell’Impero d’Occidente, circa il 20% fu assassinato – una stima forse bassa per via dei dubbi nei casi d’avvelenamento. Tanta fragilità imperiale richiederebbe una
spiegazione che vada oltre all’evidente fenomeno della “daga facile” che caratterizzava l’epoca.
Nello studio “Shocks to military support and subsequent assassinations in Ancient Rome”, due ricercatori canadesi – Cornelius Christian, della Brock University e Liam Elbourne, della St. Francis Xavier University –
suggeriscono che le brutte fini imperiali dipesero in non poca parte dalla pioggia.
Partendo da serie storiche dei livelli di precipitazione sui confini settentrionali dell’Impero – dati derivati dall’analisi della larghezza degli anelli in campioni antichi di legno – i due studiosi calcolano
che, statisticamente, “Una deviazione di riduzione standard nella precipitazione è causa di una deviazione di aumento standard dell’11% nella probabilità dell’assassinio di un Imperatore”.
Meno pioveva, più morivano i Cesari. Il meccanismo da loro proposto è che:
“La bassa precipitazione aumentava la probabilità che le truppe romane, dipendenti dai rifornimenti alimentari locali, si trovassero alla fame. Ciò le avrebbe spinte all’ammutinamento, indebolendo il sostegno all’Imperatore e
aumentando il rischio della sua uccisione”.
Lo stesso fenomeno si rivela ancora oggi, seppure sotto un altro profilo. Le carestie non sono più comuni in Occidente, ma una moderna regola della politica – codificata durante la campagna presidenziale di Bill Clinton come: “It’s the economy, stupid” – ricorda che in momenti di scarsità, anche di
soldi, pure l’elettorato democratico fa in fretta a cambiare idea sui suoi leader.
Foto tratta da Roma Today