Questo articolo di storia ci riporta al presente: a come il Governo Renzi, il Governo Gentiloni e il Governo di grillini e leghisti hanno affossato l’agricoltura siciliana insieme con la disastrosa Unione Europea. Al di là della disinformazione – storica e attuale – questo articolo dimostra che Bernardo Tanucci è stato, nel Sud Italia, il migliore amministratore pubblico dai Borbone ai nostri giorni!
di Giovanni Maduli
vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud® (Associazione culturale), e componente della Confederazione Siculo-Napolitana
Nelle prime dieci puntate di questa rubrica abbiamo appurato, seppure in maniera estremamente concisa e certamente insufficiente, alcune innegabili verità relative alle violenze, alle torture, agli stupri, alle illegalità attraverso le quali furono aggredite e annesse la Sicilia ed il Sud. Verità che, come abbiamo scritto in precedenza, non possono andare soggette ad “interpretazioni” di sorta. Verità che testimoniano inequivocabilmente cosa veramente fu quello che ancora, con un falso e subdolo eufemismo, viene indicato come “risorgimento”.
Nelle successive sei abbiamo visto “chi” volle, quando e perché, mettere fine ad un Regno che, contrariamente a quanto ci si è voluto far credere, con le sue equilibrate politiche sociali ed economiche caratterizzate da uno spiccato senso di solidarietà, rappresentava certamente un ostacolo all’affermarsi di quella borghesia di stampo capitalistico che, attraverso quelle atroci violenze, si impadronì del potere politico ed economico mortificando mortalmente le naturali e legittime aspirazioni del suo popolo.
Dalla diciassettesima puntata stiamo infine verificando “cosa” sia stato in realtà quel Regno tanto vituperato dai mass media del tempo e fino a poco tempo addietro. E, come già annunciato, lo faremo anche attraverso il contributo di insigni studiosi e storici che certamente non possono essere accusati di essere simpatizzanti o sostenitori dei Borbone.
In questa puntata vedremo, per sommi capi, quali furono gli interventi di Carlo III in favore dell’agricoltura, del commercio e della diminuzione dei carichi tributari e i suoi interventi contro lo strapotere dei Baroni isolani nei confronti del popolo. Verificheremo quindi il parere di uno dei massimi storici a livello mondiale, Denis Mack Smith che, nel suo celebre ‘Storia della Sicilia medievale e moderna’, giunto alla diciassettesima edizione, pur non disdegnando durissime critiche ad alcuni aspetti dell’operato dei sovrani del tempo, ci fornisce alcuni spunti di non poco conto attraverso i quali è possibile meglio comprendere quale fosse la difficile realtà di quel periodo storico.
Ancora, alcuni degli atti più significativi di quella monarchia, come ad esempio il ripristino degli usi civici indebitamente sottratti ai Siciliani dal ceto agiato e la restituzione ai contadini delle terre indebitamente loro sottratte dalla nobiltà.
Verificheremo infine altri aspetti della costituita Giunta di Sicilia, secondo il parere del compianto Prof. Francesco Renda.
(Carlo di Borbone) Regnò sul trono di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759 e fu capostipite della dinastia Borbone di Napoli e Sicilia. Egli inaugurò un lungo periodo di rinascita politica ed economica in tutto il regno. Varò, fra l’altro, una lunga serie di provvedimenti, che contribuirono a sollevare alquanto le condizioni sociali e politiche della popolazione dell’Isola ed a migliorare il tenore di vita. Essi furono senz’altro espressione di un animo naturalmente buono e di uno spirito animato da verace desiderio di bene. Favorì, in particolare, l’agricoltura e il commercio, rese più sopportabile il fisco, assegnò ai siciliani le cariche pubbliche, riaprì il Palazzo Reale di Palermo ed introdusse in Sicilia alcune costumanze spagnole come, ad esempio, le corride, che si svolsero nell’Isola per tutto il ‘700 e parte dell’ 800.
…
Si adoperò altresì a favore dell’approvvigionamento del grano, soprattutto durante la carestia del 1747-’48 (vicerè Eustachio di Laviefuille), avendo all’uopo istituito una “Giunta frumentaria”.
Michele Crociata, Sicilia nella storia, primo tomo; Dario Flaccovio Editore, pag. 135 e 136.
Re Carlo, che amava definirsi “Signore delle Due Sicilie”, circondato da abili ministri, sotto il controllo del Tanucci (Bernardo Tanucci), iniziando e svolgendo con geniale intuizione la sua opera e la sua funzione regale, rinsaldò la catena, riallacciandosi alle grandi tradizioni degli Angioini e degli Aragonesi, rinforzando e cementando l’ossatura dell’antico Regno.
Re Carlo, ispirato e consigliato dai suoi colti ministri: Acton, Tanucci e Medici, poté attuare nel Regno notevoli riforme amministrative e finanziarie, che ne sgretolarono la facciata medioevale e feudale.
Egli, seguito dal figlio Ferdinando, con legge del 20 ottobre 1775 disponeva che i feudatari venissero sottoposti all’Amministrazione della Giustizia e dello Stato “senza più arbitrarsi imporre grandezze, di commettere oppressioni o angarie ai loro vassalli ed altri sudditi del Re”.
Claudio Di Salvatore, Regnum Siciliae – Radici storiche e culturali…, Aletti editore, pag. 89, 90.
Denis Mach Smith, come abbiamo accennato in premessa, non risparmia durissime critiche all’operato dei sovrani del tempo, in particolare laddove, fra l’altro, scrive:
“Ferdinando e Francesco II, che divenne re nel 1859, furono sovrani incapaci a competere con il Piemonte per fare delle Due Sicilie la monarchia guida della penisola, proprio come non riuscirono a sviluppare una forma di governo che potesse mitigare le assurdità dell’assolutismo ereditario”. Oppure ancora, laddove denuncia la ferrea giustizia borbonica anche se, ammette, che “…fu talvolta rimpianta dopo il 1860”.
E tuttavia qualche pagina prima ci informa che:
“Nel 1838 il Re Ferdinando fece un giro della Sicilia e si persuase che l’irrequietudine popolare nasceva principalmente dalla mancata applicazione delle leggi esistenti. Gli si disse dei tributi feudali e delle corvèes che venivano ancora illegalmente richieste e degli innumerevoli procedimenti giudiziari deliberatamente usati come mezzo per frustrare o dilazionare i suoi progetti di riforma agraria. …Perfino il censimento della terra deciso venticinque anni prima era ancora incompleto in nove villaggi su dieci.
Una delle prime reazioni di Ferdinando fu di riaprire la università di Messina per accelerare la formazione di amministratori e di una classe istruita: essa sarebbe stata in larga misura finanziata dallo Stato… Inoltre, altri posti di lavoro dovevano essere messi a concorso, perché potessero accedervi individui di talento, nella speranza di eliminare la corruzione politica e il nepotismo che erano alla radice dell’inefficienza burocratica.
Egli decise … di ridurre l’imposta che più gravava sui poveri, quella sul macinato, e di compensare il deficit aumentando l’imposta fondiaria e imponendo un tributo ai proprietari delle miniere. Utile fu anche la fondazione di banche a Messina e Palermo…
Agli intendenti venne anche ingiunto di aprire al transito tutte quelle strade di cui i proprietari si fossero illegalmente impossessati e di impedire qualsiasi loro interferenza nei diritti di accesso all’acqua e alle foreste.
Nel 1841, poi, una legge di grande interesse prescrisse che i proprietari dovessero indennizzare i villaggi cedendo loro almeno un quinto di tutti i territori ex feudali in cui un tempo si godevano i diritti comuni. Secondo il programma, il terreno assegnato ad ogni villaggio sarebbe stato… distribuito ai poveri, e questo non attraverso una compravendita, ma mediante un’estrazione a sorte. Tutti i lotti dovevano essere al riparo da qualsiasi azione di eventuali creditori per vent’anni…
I latifondisti e i gabelloti, perciò, agirono in modo da neutralizzare il tentativo di riforme di Ferdinando (II n.d.a.). Radunando intorno a sé i loro dipendenti e i loro bravi… essi cercarono di convincere il popolo che non erano loro, ma gli odiati Borbone a impedire ogni progresso e a mantenere povera la Sicilia.
Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza Edizioni, pag. 542, 543, 544, 545, 548, 576.
Gli era che le regioni meridionali a partire dal 1734 avevano un Re tutto per loro, dopo cinque secoli di divisione e di dipendenza dallo straniero, ma la loro unione in “Regno libero” era ancora di là da venire. Fatte le Sicilie, erano da fare i Siciliani senza distinzione di stato di qua e al di là del Faro. Il problema era simile a quello che si sarebbe posto centoventicinque anni dopo per il Regno d’Italia, non più su scala meridionale, ma nazionale.
Re Carlo e i suoi ministri Santostefano, Montealegre e Tanucci, dopo essere stati in Sicilia, credettero di avviare una prima soluzione del problema, partendo dalla realtà di fatto e istituendo una Giunta consultiva per la Sicilia, composta da due giureconsulti siciliani, due giureconsulti napoletani e presieduta da un barone parlamentare siciliano, avente il grado e la funzione di Consigliere di Stato. Dando dunque per acquisito che il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia avrebbero conservato vita autonoma, e che quello di Napoli, a preferenza del Regno siciliano, si sarebbe direttamente identificato con le strutture istituzionali della monarchia meridionale (significava in tal senso la abolizione del Consiglio collaterale, e la riforma degli organi fondamentali del Viceregno partenopeo), si intese garantire ai siciliani che i loro affari, pur se trattati a Napoli, capitale della monarchia, sarebbero sempre passati al vaglio preventivo di un organismo in cui i Siciliani avevano statutariamente la maggioranza.
La Giunta provinciale di Sicilia, che gli isolani chiamavano “Giunta Suprema”, era concepita sul modello del Consiglio d’Italia, un istituto peculiare del governo spagnolo, cui fin dai tempi di Filippo II erano devoluti gli affari dei domini italiani. Naturalmente, non mancarono le differenze. Nel Consiglio d’Italia, la preminenza era spagnola. Composta di 7 membri, 3 erano italiani, rappresentanti ciascuno la Sicilia, Napoli e Milano; 3 erano spagnoli; ed in più c’era il presidente anch’esso spagnolo.
Nella Giunta di Sicilia, composta originariamente di 7 membri, poi ridotti a 5, essendo venuti meno i rappresentanti dei Ducati di Parma e Piacenza, il presidente non solo era siciliano, ma la sua nomina, in accoglimento di una precisa richiesta della siciliana Deputazione del Regno, venne riservata ad una rosa di nomi proposta dalla stessa Deputazione. In tal modo, si volle appianare ogni possibile motivo di scontento, e perciò al baronaggio fu riconosciuta, oltre al diritto di gestire gli affari del Regno di Sicilia, che non erano pochi né di poco momento, anche la facoltà di intervenire, sia pure a titolo consultivo, negli atti propri dell’amministrazione centrale, comunque riguardanti la Sicilia, e negli affari generali dello Stato.
– Francesco Renda, già Professore Emerito di Storia Moderna presso l’Università di Palermo, Storia della Sicilia, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Vol. VI, pag. 191, 192.
Foto tratta da Cose di Napoli
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