Nella puntata precedente abbiamo raccontato l’ennesima ‘vittoria’ farlocca di Garibaldi in Sicilia: 24 mila militari borbonici che, a Palermo, si ‘arrendono a 3 mila garibaldini. Oggi il capitolo del libro di Giuseppe Scianò ci descrive che cosa combinarono, insieme, garibaldini e picciotti di mafia (gli uni valevano quanto gli altri) dopo che i militari borbonici lasciarono il capoluogo della Sicilia: saccheggi, saccheggi e saccheggi fatti passare come “rivoluzioni sociali” nel nome dell’Italia di Vittorio Emanuele…
Il valoroso Reggimento del 9° Cacciatori s’imbarca per Messina.
Il Generale Lanza trasferito ad Ischia: accusato di alto tradimento.
I 24.000 soldati Duosiciliani vengono quindi riuniti nello spazio tra i Quattroventi e il molo di Palermo. Sono ancora una bella forza. Le perdite sono state consistenti, ma non eccessive. Si contano, dallo sbarco di Garibaldi al 9 giugno 1860, un totale di 208 morti (4 ufficiali e 204 fra sottufficiali e soldati). I feriti sono complessiva- mente 562 (33 ufficiali e 529 fra sottufficiali e soldati).
Ma non è certamente un bello spettacolo vedere quell’eccellente potenziale umano di alta professionalità, nuovamente inoperoso che, di giorno in giorno, a scaglioni viene imbarcato per Messina o per Napoli. In questo contesto viene ricordato l’episodio di un soldato napoletano che si rivolge polemicamente al generalissimo Lanza più o meno con queste parole:
«Eccellenza, ’o vedite quanti simme? E dobbiamo fuggire di fronte a questi straccioni?» ed il Lanza gli risponde: «Stai zitto ubriacone!».
Questo piccolo aneddoto è l’unico che la storiografia ufficiale non ha censurato su quella vicenda.
Le proteste dei Militari Meridionali in realtà sono e saranno molto più numerose e più motivate. E ben più pericolose. Il tenente Colonnello Bosco, ad esempio, passando in rassegna il suo battaglione, contesterà apertamente e ad alta voce l’operato degli alti gradi dell’Esercito Duosiciliano, colpevoli di aver regalato una serie di vittorie agli invasori.
Il Lanza, che assiste dal balcone alla cerimonia militare, offeso ed indignato, invierà un rapporto direttamente al Re Francesco II. Ma questi, che ormai comincia a comprendere la situazione, non abbocca. Si affretterà anzi a conferire la promozione, per l’encomiabile comportamento tenuto durante le operazioni belliche, al Bosco, il quale diventerà appunto Colonnello.
La vita, in un campo di smistamento, tende a diventare sempre più difficile per il Luogotenente Lanza e per i suoi collaboratori più diretti. I soldati Duosiciliani sono insofferenti ed accusano, ormai sempre più esplicitamente, di alto tradimento il Luogotenente ed i suoi complici. Negano loro il saluto, li guardano di traverso e spesso lasciano partire qualche invettiva. Per il Lanza arriva l’ordine di imbarcarsi per Napoli, insieme ad alcuni ufficiali di Stato Maggiore.
Costoro saranno poi portati ad Ischia come prigionieri imputati di alto tradimento. Finalmente il Re Francesco II li vuole processare. Le accuse sul loro comportamento non si contano. Non ultima quella di avere fermato la controffensiva del Von Mechel, il quale con la sola forza dei suoi 4.000 uomini avrebbe potuto sbaragliare i Garibaldini, nonché i rinforzi che intanto erano arrivati dal Continente ed i picciotti di mafia. Così come del resto il vecchio ufficiale, tutto d’un pezzo, aveva cominciato a fare, non appena ne aveva avuto la possibilità.
Diciamo subito che il processo di Ischia non approderà a niente. Un po’ per la mancanza di tempestività e di grinta da parte della Giunta giudicante (composta dai generali Ritucci, Vial, Casella e Del Carretto) ed un po’ per le sopraggiunte calamità del Regno, come scrive il Buttà.
Nel corso della parziale istruttoria il Lanza – indirizzando una lettera al Re, da lui tradito – darà un saggio della propria personalità contorta e spregiudicata. Si scaricherà di ogni responsabilità, giurando di aver agito in buona fede e ritorcendo le accuse su alcuni ufficiali veramente colpevoli (ma non quanto lui). Cercherà altresì di infangarne altri, coinvolgendo pure coloro che avevano fatto onestamente il loro dovere. Insomma: gli interesserà prendere tempo e sollevare polveroni in attesa che Garibaldi giunga a Napoli.
Addio, Palermo!
Il grande esodo di soldati Duosiciliani da Palermo si concluderà, comunque, il 19 giugno 1860, con la partenza di tutti i militari del 9° Cacciatori. Il reggimento nel quale, come sappiamo, è inquadrato come cappellano Padre Giuseppe Buttà, uno dei nostri testimoni oculari più sinceri e appassionati. I Cacciatori vengono imbarcati sul piroscafo Etna, della Marina Mercantile, comandato, per la circostanza, dal Capitano della Marina Militare Marino Caracciolo, ufficiale valoroso e di saldi principi. È un momento di grande emozione.
Padre Buttà vorrebbe imbarcarsi per ultimo. Ma il Capitano Raffaele Del Giudice rivendica per sé tale onore, essendo belligerante. Buttà non può insistere, tanto più che ha avuto, in diverse occasioni, modo di constatare il valore e la dedizione di quell’ufficiale.(3)
Il piroscafo Etna navigherà lentamente perché tira dietro di sé due paranzelle stracariche di soldati. Arriverà a Messina soltanto l’indomani, il 20 giugno 1860. Solo dopo che quest’ultimo contingente di soldati Duosiciliani è partito, il forte di Castellammare alza il tricolore italiano e ai parroci di tutte le chiese di Palermo viene dato l’ordine di suonare a stormo le campane per dimostrare… gioia per l’avvenimento.
Vengono disposti anche grandi festeggiamenti e luminarie. Guai a non parteciparvi. È cominciato, infatti, un nuovo regime a tolleranza zero verso i dissidenti, soprattutto se appartenenti ai popoli soggiogati come quello della Sicilia e – fra non molto – quello della Napolitania.
Vince la politica delle bande e dei massacri.
I «picciotti di mafia» e i Garibaldini saccheggiano le case…
La notizia del tradimento del Luogotenente Lanza e quella del «regalo» della capitale della Sicilia ai Garibaldini, generano smarrimento e confusione in tutta la Sicilia. È il crollo completo di ogni parvenza di ordine e di legalità.
La scandalosa «concessione» ai picciotti di mafia, ai delinquenti comuni ed ai Garibaldini della facoltà di saccheggio, a danno della popolazione palermitana, è un fatto di eccezionale gravità. E la dice lunga sull’operazione di conquista della Sicilia.
Viene confermato il via libera al dominio delle bande dei picciotti di mafia, alle quali si aggiungono altre improvvisate bande di delinquenti comuni, vecchi e nuovi in tutta quanta la Sicilia. Le une e le altre bande potranno scorrazzare in lungo ed in largo per le campagne, per le città e per i paesi nei quali non esistono più presidi dell’Esercito Duosiciliano.
Talvolta non basta, per le popolazioni siciliane, dichiararsi a favore della rivoluzione. Se le bande hanno deciso di saccheggiare un paese e di fare bottino, lo continuano a fare fino in fondo. Il Comando Garibaldino di Palermo ha, a sua volta, interesse che tutto ciò avvenga per dimostrare che la rivoluzione esiste.
Anche i saccheggi ed i massacri più spietati, a danno dell’intera cittadinanza pacifica ed innocente, di questo o di quel centro abitato, grande o piccolo che sia, vengono incoraggiati e saranno, poi, considerati rivolte sociali. E come tali giustificate ed esaltate.
Salvo, ovviamente, a prenderne le distanze in qualche caso diventato scottante, come avverrà a Bronte, ad Alcara Li Fusi ed in altre località.
La regola generale è quella della massima libertà di massacrare e di saccheggiare fino a che il centro abitato preso di mira non sarà occupato da uomini di fiducia del Governo del Dittatore Garibaldi il quale agisce sempre ed esplicitamente in nome e per conto di Vittorio Emanuele Re d’Italia (anche se il Regno d’Italia sarà proclamato soltanto il 17 marzo 1861…).
Talvolta a capo di una banda viene posto un vero garibaldino, con il tacito consenso del Dittatore. In tal caso quella banda potrà delinquere meglio delle altre. Va da sé che le popolazioni della città e dei paesi, nei quali non esistono più presidi dell’Esercito Duosiciliano, rimpiangono la migliore «qualità» del precedente regime. E sperano talvolta che Francesco II possa alla fine vincere, superato il primo difficile impatto con gli invasori.
Va puntualizzato che i Siciliani in passato avevano lottato a lungo contro i Borbone per l’indipendenza e per la libertà della Sicilia. L’occupazione garibaldina, in nome e per conto di un Re piemontese, non solo nega l’una e l’altra prospettiva, ma costringerà il Popolo Siciliano in condizioni di una subordinazione coloniale, mai patita fino a quel momento.
Le popolazioni siciliane saranno, pertanto, deluse ulteriormente, perché le truppe Duosiciliane (comandate da generali già venduti agli Inglesi o ai Piemontesi o ai Massoni o a tutti questi contemporaneamente), riceveranno via via l’ordine di ritirarsi ancora di più e di concentrarsi soltanto nei capisaldi di Augusta, Siracusa, Milazzo e Messina. Ciò a prescindere dal consenso dei cittadini o dalle possibilità di rivincita.
Questi capisaldi sono destinati, a loro volta, ad essere regalati agli invasori. Ogni qualvolta se ne presenterà l’occasione. Come avremo modo di vedere, però, non mancheranno le sorprese rappresentate dagli ufficiali e dai soldati Duosiciliani che intenderanno comunque battersi a difesa della loro patria con onore.
Una delle vicende più scellerate e più vergognose della conquista della città di Palermo riguarda l’autorizzazione che viene data ai componenti dell’Armata Garibaldina («picciotti di mafia» compresi) di saccheggiare per qualche giorno le case (proprietà, abitazioni, ecc.) delle famiglie siciliane. Ciò, dopo la resa dei soldati dell’Esercito Duosiciliano.
Intendiamoci: il saccheggio (che peraltro usualmente comprendeva ogni tipo di violenza) era consentito soltanto per le proprietà degli indigeni, precisa il Mundy (offendendoci due volte), cioè dei Siciliani. Le case degli stranieri sarebbero state rispettate. Un trattamento colonialista, quest’ultimo, indegno di una nazione civile, che la Sicilia non meritava e sul quale gli storiografi non dovrebbero sorvolare.
Riportiamo, pari pari e di seguito quanto in proposito ebbe a scrivere l’Ammiraglio George Rodney Mundy nel suo diario con la data del 7 giugno 1860:
«Era stato concesso il SACCHEGGIO delle proprietà INDIGENE (cioè dei Siciliani, n.d.A.), ma le CASE e gli averi degli STRANIERI erano stati in genere rispettati. S’era minacciato, invero, di mettere a SACCO e a FUOCO UNA CASA di proprietà del Sig. FIAMINGO, sposato ad una inglese, sorella di FROST, il capo del movimento CARTISTA; la salvò l’intervento di un ufficiale che avevo inviato alla signora per offrirle protezione come SUDDITA BRITANNICA».
Sbarca la spedizione del Colonnello Medici con l’Esercito Sabaudo.
Facciamo un passo indietro. Mentre avvenivano le operazioni d’imbarco di tutti i soldati Duosiciliani dal molo palermitano dei Quattroventi, proveniente da Sestri Ponente (Liguria), sbarcava a Castellammare del Golfo, tra Trapani e Palermo, la spedizione garibaldino-piemontese comandata dal Colonnello Giacomo Medici. Questa era stata trasportata in Sicilia sui piroscafi Washington e Franklin, ed era composta da 2.700 soldati del Regno di Sardegna (Piemonte).
Non mancavano, però, interi reggimenti di mercenari stranieri. Il Medici, su quelle navi, aveva portato con sé anche ben 8.000 fucili rigati e 400.000 cartucce. Era il 17 giugno 1860.
Il Colonnello piemontese ed i suoi 40 ufficiali sarebbero arrivati per primi a Palermo, in avanguardia, indossando la divisa del Regno Sabaudo. Ormai non si rispettavano più neppure le apparenze. Particolari, questi, che ha opportunamente stigmatizzato anche lo storico Tivaroni nel suo
«L’Italia degli Italiani» (vol. II, pag. 235 e segg.).
Il Generale Medici ed i suoi uomini, come vedremo, saranno quasi immediatamente inviati a Milazzo per dare manforte a Garibaldi nella battaglia contro il Colonnello Bosco.
Foto tratta da GLOBUS Magazine
(3) G. Buttà, op. cit., pag. 69.
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Foto tratta da hiveminer.com
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