Anche a Palermo Garibaldi ha subito soltanto sconfitte. In suo aiuto scendono pesantemente in campo gli inglesi che, d’accordo con i generali-traditori borbonici, impongono una farsesca tregua. Di lì a poco, dopo aver fornito false notizie al Re Francesco II, i Duosiciliani, pur avendo battuto Garibaldi si ‘arrenderanno’, fra le proteste dei soldati. Garibaldi e Crispi, intanto, si impossessano di 5 milioni di ducati, anche per pagare i traditori borbonici. L’Italia mafiosa e tangentara è nata…
di Giuseppe Scianò
Le disgrazie non vengono mai da sole
A bordo dell’Hannibal per concordare una tregua d’armi.
E così il 30 maggio si svolge l’incontro (chiesto, secondo copione, umilmente dal Lanza) fra i generali Letizia, Buonopane e il Dittatore Nizzardo.
Con la consueta ipocrisia il Mundy annota che evidentemente l’Esercito Duosiciliano deve essere in cattive condizioni se l’orgoglioso Generale Lanza si abbassa a tanto. È vero il contrario. Se Lanza non fosse intervenuto con il suo tradimento, l’Esercito Duosiciliano avrebbe vinto. E la spedizione Anglo-piemontese-garibaldino-sabauda e… mafiosa sarebbe andata a finire a gambe all’aria.
Come puntualmente lo stesso Ammiraglio inglese riporterà nel suo libro, nel corso della giornata, il Generale Garibaldi chiederà sottovoce al Comandante americano Palmer ed al Marchese D’Aste, piemontese (ufficialmente sardo), munizioni per i suoi soldati. Il Dittatore riconosce, così, di essere con l’acqua alla gola e di essere rimasto pressoché senza munizioni.
Ma ammette anche qualcosa di peggio. E cioè che è del tutto naturale, anzi logico – per lui, ovviamente – che Piemontesi ed Americani (oltre che i protettori Britannici) gli diano soccorsi sia militari che di altro genere. Cosa che del resto era sempre avvenuta, soprattutto negli ultimi due decenni.
Il Mundy scriverà di dubitare che il Comandante americano e quello sardo abbiano accolto questa richiesta. Ma aggiungerà, con fare sornione, che se lo avessero fatto… non lo avrebbero certo raccontato a lui (e neppure a noi, aggiungiamo…).
Questo particolare, tuttavia, è importante per fare comprendere come la tregua fosse stata finalizzata soprattutto a favorire, in linea con la pianificazione inglese, i Garibaldini ed i loro complici, terrorizzati al solo pensiero che da un momento all’altro potesse aver luogo la vera battaglia di Palermo. Tanto più che il Von Mechel – che aveva sconfitto diverse volte il fior fiore dell’esercito garibaldino – era in città con i suoi soldati e ufficiali, fra cui ricordiamo il Bosco ed il Morgante, impazienti di confrontarsi con il Duce dei Mille, nella cui invincibilità e nel cui mito non avevano mai creduto né tantomeno credevano dopo le esperienze fatte.
L’indomani una nave greca, approfittando della tregua e violandola, porterà armi e munizioni ai Garibaldini. Bisogna, del resto, ricordare che anche la Grecia, in questo periodo, è sotto il controllo e la protezione della Gran Bretagna. La commedia della «Conferenza» ha luogo poco dopo le ore 14 del 30 maggio. Sempre sull’Ammiraglia Britannica Hannibal, dove si possono incontrare i generali Letizia e Chretien, da un lato, e Garibaldi, col suo statmaggiore, dall’altro.
Ospite d’onore, anche se silenzioso e guardingo, il Comandante superiore della Flotta Sabaudo-piemontese, marchese D’Aste. Sono presenti il Comandante Palmer della fregata americana Iroquois, il Comandante Lefevre della pirofregata Vauban ed altri ufficiali di varie nazionalità. Oltre che, ovviamente, il padrone di casa: Ammiraglio Mundy.
Il Letizia, che già è praticamente dalla parte di Garibaldi, come vedremo meglio successivamente, recita la sceneggiata del duro, per dare allo stesso Garibaldi il pretesto di alzare la voce e rendere credibile il fatto che si stia per svolgere una vera trattativa. Soprattutto agli occhi dei rappresentanti degli altri Stati.(7)
Garibaldi si agita ed urla in francese: «La municipalitè c’est moi!».
Dopo i convenevoli e le finte schermaglie, diplomatiche e no, il Letizia finalmente si mette a leggere condizioni alle quali si dovrà adattare la tregua, articolo per articolo. Questi i primi quattro articoli:
«1) Si concluderà una tregua d’armi per il periodo di tempo che converrà alle due parti;
2) Durante l’armistizio ciascuno partito manterrà le sue posizioni;
3) Si concederà ai convogli dei feriti e alle famiglie dei funzionari che si trovano nel Palazzo Reale di attraversare liberamente la città per imbarcarsi sulle regie navi;
4) Si permetterà alle regie truppe nel Palazzo ed alle famiglie dei rifugiati nei monasteri vicini, di provvedersi delle provviste giornaliere».
Il quinto articolo è scritto in modo piuttosto infelice ed è peraltro volutamente privo di senso compiuto. Così recita:
«5) La municipalità indirizzerà a S.M. il Re un umile petizione, rappresentandogli i reali bisogni della città. Tale petizione verrà sottoposta a Sua Maestà».
Ed è naturale che succeda il finimondo programmato. Il Mundy ci racconta con simulato distacco:
«A questo il Generale Garibaldi replicò in alto e veemente tono di voce:
“No!” Quindi scattando in piedi, aggiunse: “Il tempo delle umili petizioni è passato; e poi, la municipalità non esiste più. La municipalitè c’est moi! Io sono la municipalità! Rifiuto il mio consenso. Passiamo alla sesta ed ultima proposizione”.
Nell’udire queste parole il Generale Letizia manifestò stupore ed indignazione. Arrotolando il foglio che teneva spiegato dinanzi a sé, esclamò:
“Allora, signore, ogni comunicazione tra noi deve cessare, eccetto che quest’articolo non venga accolto”.
Garibaldi, il quale, prima che arrivasse all’esame della quinta clausola, aveva mantenuto un atteggiamento flemmatico, proruppe in una risposta i cui termini mostravano aver anch’egli perso completamente ogni controllo. Denunziò con parole esorbitanti la mancanza di buona fede, anzi l’infamia che le autorità regie avevano svelato col permettere a mercenari stranieri, mentre s’era alzata bandiera di tregua, di attaccare i soldati Italiani che avevano ricevuto l’ordine di cessare il fuoco. Con questa mossa proditoria essi avevano ferito gravemente uno dei suoi migliori ufficiali, il Colonnello Carini, ed avevano guadagnata una posizione che tutt’ora occupavano, contro ogni principio d’onore militare. Ma perfidie come queste non potevano trionfare; e sarebbero infine ricadute con spaventevoli effetti sul capo dei loro autori.
Il Generale Letizia rispose con uguale animazione quindi, volgendosi verso di me con gli stessi modi autoritari che aveva usato appena giunto, mi pose una serie di domande in rapida maniera irriguardosa s’era parlato del Re suo Signore? Non avevo forse accettato l’ufficio intermediario e non pensavo di dover insistere perché l’articolo in questione fosse adottato? Non vi poteva certo esser nulla di avvilente nella firma della petizione che si proponeva di deporre umilmente ai piedi di Sua Maestà. Egli confidava nel mio senso della giustizia, giacché era appunto arrivato il momento della mia mediazione».(8)
Non ci meravigliamo né dei modi dittatoriali né tanto meno del fatto che Garibaldi abbia usato l’espressione francese le municipalitè c’est moi!, perché, come abbiamo detto e come vedremo meglio in seguito, il Nizzardo, Vittorio Emanuele II ed il Cavour, oltre che numerosi altri Padri della Patria, sono prevalentemente francofoni. A differenza, ovviamente, di quello straniero di Francesco II che parlava napoletano ed italiano…
Anche il traditore Letizia sa recitare bene.
Se il Letizia sapeva recitare, Garibaldi non era da meno. E forse entrambi recitano così bene da arrabbiarsi veramente, come talvolta capita agli attori più bravi, compenetrati nelle rispettive parti. Con qualche fuori programma. Alla fine della teatrale incazzatura di Garibaldi, si passò alla lettura ed approvazione dell’ultimo articolo, il 6, che diceva semplicemente:
«Si concederà alle truppe in città di ricevere viveri dal Castello».
Articolo, quest’ultimo, che sarà il Lanza a rendere vano successivamente, facendo in modo che questi viveri finissero nelle mani dei Garibaldini, anziché in quelle dei soldati Duosiciliani. Garibaldi ha ora materiale sufficiente per recitare in pubblico (magari inventando qualche nuovo particolare) la scena di sdegno con la quale aveva respinto l’articolo 5. Cosa che avrebbe fatto dopo qualche ora davanti ai suoi fans e ripetuto migliaia di volte in libri, interviste ed articoli. Per la gioia dei suoi storiografi.
Chretien e Letizia, che fino a questo momento hanno recitato altrettanto bene, non resistono più e si affrettano a chiedere, prima di lasciare l’Hannibal, di parlare riservatamente con il Mundy. Questi li porta con sé nella galleria di poppa, dove si potrà svolgere la tanto desiderata conversazione privata. «Ciò che ora avvenne (sic!)» scrive l’anfitrione inglese, «è strettamente confidenziale».(9)
Non c’era bisogno, del resto, che il Mundy ci riferisse ciò che si erano detti, perché lo immaginiamo egualmente. E comprendiamo benissimo le ragioni della riservatezza. Non sarà un caso che il Chretien ed il Letizia (come abbiamo già anticipato) di lì a poco sarebbero passati al servizio del nemico, Vittorio Emanuele II, nel cui interesse sia il prode Garibaldi che il Mundy già lavoravano. I due bei tomi avrebbero avuto, altresì, un trattamento di particolare favore nel cambiare casacca e bandiera. Dopo qualche mese, s’intende…
Tutto è pronto per ingannare e tradire il Re Francesco II.
Il Mundy ha, però, anche la bontà di dirci di aver raccomandato ai due focosi ufficiali Duosiciliani di recarsi subito a Napoli, «dove avrebbero potuto descrivere dettagliatamente lo stato di cose del Governo Siciliano». Altra ipocrisia per dire il contrario di quella che era la verità. Infatti, i due ufficiali dovevano essere – e lo sarebbero stati – infedeli fino in fondo. Avrebbero detto, una volta a Napoli, al loro Re ed al loro Comando Generale, tutta una serie di falsità e di menzogne sull’andamento dei combattimenti e sull’esigenza di ritirarsi da Palermo.
Così come Garibaldi ed il Mundy volevano che fossero dette. Al fine di pervenire ad un armistizio ed alla conseguente ritirata definitiva da Palermo dell’Esercito Duosiciliano, regalando a Garibaldi e a Vittorio Emanuele un’altra vittoria.
Un’ultima puntualizzazione. Da quanto scrive Padre Buttà, si evince che fra Garibaldi ed il Generale Letizia, esisteva già un filo diretto ancora prima che si svolgesse l’incontro per la tregua.
Un patto scellerato.
E tregua fu… nell’interesse di Inglesi, Garibaldini e picciotti di mafia!
La tregua, per la quale avevano trattato i protagonisti dell’incontro sull’Hannibal, avrebbe dovuto avere l’effetto di far durare il «cessate il fuoco» per 24 ore. Ma, si sa, il buon Garibaldi sarebbe stato disposto a dare ampie proroghe. Per ragioni umanitarie. S’intende… E, soprattutto, per salvare se stesso!
Lì per lì, sulla propria nave, il Mundy aveva anche esagerato. Si era rammaricato, infatti, con il Generale Letizia per il fatto d’armi avvenuto poco tempo prima, allorché il Von Mechel ed il Colonnello Bosco avevano travolto le truppe garibaldine ed erano tornati ad occupare persino la piazza della Fiera Vecchia. Il Mundy in proposito avrà il coraggio di scrivere:
«Quella rottura, della buona fede aveva compromesso la bandiera inglese (sic!) ed era un torto fatto a me personalmente, dopo che mi ero assunto una grande responsabilità in sostegno dell’autorità costituita, per venire incontro ai desideri del commissario del Re».(10)
Chiariamo che pure questa finta protesta del Mundy ha una sua finalità. Quella, cioè, di rendere credibile la figura e l’operato (scorretto, un vero tradimento) del Lanza che, come sappiamo, aveva fatto fermare dal Nicoletti le truppe Duosiciliane, già vincitrici (e peraltro bene accolte dalla popolazione) ricorrendo all’espediente di far credere che la tregua fosse stata già stipulata ed operante.
Il Generale Letizia – come scriverà, appunto, il Mundy – pur non tentando di giustificare il fatto in sé, dichiarò: «…che si trattava di un errore, che egli deplorava, attribuibile ad errata trasmissioni di ordini».(11)
Insomma, la commedia continuava, dando copertura al tradimento sfacciato del Generale Lanza. Ed il Mundy si dichiarava addirittura soddisfatto delle scuse da burletta.
Firmata la tregua e fatto il comizietto alla sua claque (nei pressi del Palazzo Pretorio), Garibaldi si affannerà a dare ordini ben precisi per fare apparire credibili tutte le operazioni che seguiranno a ritmo serrato. Le «barricate», – costruite solo… per la propaganda e la mitologia – malfatte o pressoché totalmente smantellate, dovranno ora essere «ampliate, moltiplicate e rafforzate».
Evidentemente il decreto, datato 28 maggio 1860, non aveva avuto ancora concreta attuazione (ammesso che la data fosse stata quella vera).
Quelle «barricate», solo in minima parte utilizzate, diventeranno preziose, quando verranno fotografate e riprodotte sui libri e sui giornali, per la macchina propagandistica.
Le squadre dei picciotti di mafia (impresentabili e pienamente occupate negli assassinii, negli stupri, nei furti e nei facili delitti) sarebbero state ora battezzate Cacciatori dell’Etna, scrive candidamente il Mundy. Ovviamente la denominazione viene affibbiata soprattutto all’altra parte dell’Armata Anglo-piemontese-garibaldina (quella D.O.C. per intenderci).
Che confusione! Il Mundy conclude il rapporto su quella giornata sottolineando l’esigenza (e la condizione imposta dai Borbonici) che i «mercenari stranieri dovevano essere immediatamente scacciati dalla posizione avanzata che avevano proditoriamente occupato, facendosi scudo della bandiera di tregua».
Quest’ultima affermazione, peraltro già utilizzata, contiene di nuovo l’esatto contrario della verità. Come falsario il Mundy dimostra, insomma, di essere più bravo di quanto non lo fosse come Ammiraglio. Ed era in realtà un valente Ammiraglio. Il quale, anche scrivendo falsità, adempiva ai propri doveri di soldato, ligio agli ordini del Governo di S.M. Britannica.
Il Mundy di fatto ha già regalato la città di Palermo a Garibaldi, ma non può vantarsene. Ha, anzi, la consegna di raccontare menzogne. Com’è noto – e ci teniamo ad evidenziarlo ancora una volta – i mercenari che il Regno di Sardegna (leggi: Piemonte) e lo stesso Governo di Londra avevano già ingaggiato ed inviato alla volta della Sicilia, erano molto più numerosi e schifosi di quelli che militavano nell’Esercito Duosiciliano, ma il Mundy evita di evidenziarlo.
Garibaldi, da parte sua, emetteva decreti accattivanti ed inviava collaboratori e collaborazionisti ad invogliare sia i mercenari (che peraltro avevano uno status del tutto particolare) sia i soldati Duosiciliani a disertare e ad arruolarsi nella sua armata. Ne riparleremo.
Ricordiamo che il Governo Britannico aveva continuamente bisogno di dare ad intendere all’opinione pubblica internazionale ed alle altre potenze europee che i diplomatici ed i militari Inglesi in Sicilia, nell’operazione conquista del Regno delle Due Sicilie, si erano mantenuti e si mantenevano nell’ambito del rispetto delle regole del Diritto internazionale e nei limiti delle consuetudini diplomatiche. Senza alcuna interferenza politica o militare.
Nel suo libro il Mundy dovrà quindi mentire e dovrà usare bene le menzogne quando affronterà il racconto delle scottanti e complicate vicende del biennio 1860-1861 in Sicilia. E saprà cavarsela abbastanza bene, fornendo non poche testimonianze ed argomentazioni comunque utili alle tesi del Governo di Londra. A prescindere dai fatti realmente accaduti.
E fra questi fatti non si può trascurare la fatica che dovrà fare il bravo Ammiraglio per dare una spiegazione alla imminente, vergognosa, uscita di scena, seppure con l’onore delle armi, delle migliaia di soldati Duosiciliani ai quali il grande traditore Lanza aveva impedito con ogni mezzo di combattere, di vincere e, talvolta, di stravincere. In altre parole, il Mundy dovrà fare apparire come fatto normale quello che è stato e sarà il fiore all’occhiello del suo delicato mandato: il regalo della città di Palermo a Garibaldi, miracolosamente salvato dalle grinfie dei valorosi soldati Duosiciliani.
Anticipiamo un particolare: proprio sulla caduta di Palermo, l’Ammiraglio Mundy sarà costretto a dire qualche bugia di grosse dimensioni. Ma sarà costretto anche a fornirci alcune di quelle notizie che la Cultura Ufficiale, poi, avrebbe cercato di cancellare; talvolta senza riuscire a farlo in modo decente e completo.
Seguiamo, adesso, gli altri eventi che si susseguono senza sosta.
La tregua salva-Garibaldi sarà ulteriormente prorogata…
Al termine della breve tregua, sia pure obtorto collo, il Lanza avrebbe dovuto autorizzare un attacco (finalmente…) contro le forze di occupazione garibaldine. Se ne è già parlato nell’ambito del Comando Generale dell’Esercito Duosiciliano. L’attacco si sarebbe articolato principalmente su tre colonne che avrebbero marciato rispettivamente per il Papireto, per Ballarò e per il Cassaro (attuale via Vittorio Emanuele).
Tutto pronto e tutto facilmente eseguibile. Si aggiunga che i cittadini di Palermo sono, intanto, diventati ancora più favorevoli alla controffensiva Duosiciliana e lo manifestano esplicitamente ai soldati ed agli ufficiali con i quali, di volta in volta, riescono a dialogare.
Opportuna sotto ogni aspetto, dunque, anzi necessaria, sarebbe adesso la determinazione dello Stato Maggiore di attaccare immediatamente, facendo uscire l’Esercito Duosiciliano dall’immobilismo, pressoché totale, nel quale lo aveva costretto il Lanza fino a quel momento. Tutti gli altri ufficiali erano, infatti, convinti che si dovessero recuperare tempo e posizioni perdute. E che si dovesse sferrare un contrattacco degno di tale nome.
Ma, guarda caso, a questo punto, il Colonnello Buonopane, amico e collaboratore del più noto Generale Letizia, suggerisce al Lanza di chiedere una proroga, di altri tre giorni, dell’armistizio in corso. La motivazione dichiarata era quella che i Garibaldini, intanto, avevano costruito (o, meglio, stavano ancora costruendo) barricate e fortificazioni militari. Meglio, quindi, preparare con più accuratezza l’azione di contrattacco Duosiciliana.
Come?… Rinviandola! Insomma: una sceneggiata tira l’altra ed una tregua tira l’altra.
Il Lanza – secondo copione – fa finta di cedere alla richiesta di Buonopane e decide, al volo, di chiedere a Garibaldi una nuova tregua, mettendo avanti le solite esigenze umanitarie della sepoltura dei morti e dell’assistenza ai feriti. Che astuzia! Che novità! Chi meglio degli stessi Letizia e del Buonopane potranno portare la richiesta al Dittatore? Saranno, questi due, i messaggeri del Lanza. Ed i più fidati complici del mega-tradimento.
Buttà: si tratta di stupidaggine? No: di tradimento e di malvagità.
Così Giuseppe Buttà commenta la decisione del Lanza:
«Osservate, lettori miei, quanta stupidaggine o malvagità! Se in una notte la città fu barricata in modo che la truppa ne avrebbe patito gran danno assalendola, con altri tre giorni di tregua Palermo non sarebbe divenuta inespugnabile? Intanto a quel modo ragionavano quei duci gallonati, e con buon senso da veri idioti. E se tali non si volessero ritenere, meriterebbero allora quegli epiteti di cui gli ho di già gratificati. È legge di guerra, che nella tregua nessuna delle parti belligeranti possa fare opere di fortificazioni qualunque esse siano, tuttavia i Garibaldini ne facevano quante più potevano, ed i soldati, spettatori di quelle opere a loro danno, non potevano impedirle per divieto dei propri duci. I Garibaldini fecero di più; contrariamente a’ patti della tregua impedirono alla regia truppa di fornirsi di vettovaglie, impossessandosi de’ carri pieni di viveri destinati ai soldati. Lanza e gli altri Generali della sua qualità nulla trovarono da osservare a queste infrazioni dell’armistizio. E qui rammento che numeroso convoglio di carri, di ritorno dall’aver trasportato i feriti imbarcati per essere condotti a Napoli, avendo viveri e munizioni per la truppa, accantonata al piano del R. Palazzo e nell’altro limitrofo, fu ad un punto di avere la sua scorta sacrificata dalle masse a Porta Maqueda, se l’ufficiale che la comandava, non avesse avuto più che coraggio, e lodevolissima presenza di spirito».
Con la nuova tregua i faccendieri Garibaldini conquistano privilegi, agevolazioni e tanto, troppo denaro in contanti.
Detto fatto: il Colonnello Buonopane e il Generale Letizia si recano nuovamente da Garibaldi al Palazzo Pretorio. Qui, il Dittatore, felice che tutto proceda secondo copione, li riceve con cordialità, quasi familiarmente. Un solo ufficiale garibaldino è presente. Si tratta di quel Bandi che gli fa spesso da segretario e del quale abbiamo, qua e là, riportato alcune delle acute osservazioni, sfuggitegli dalla penna, suo malgrado.
Questa volta non ci dice niente di eccezionale, ma ci conferma il clima di amicizia e di cordialità nel quale si svolge l’incontro.
Dopo averli fatti accomodare, Garibaldi offre al Letizia ed al Buonopane due mezzi sigari di Nizza e successivamente alcuni spicchi di arancia che aveva sbucciato in loro presenza. Insomma: un incontro fra commilitoni… Dopo avere concordato le condizioni della ulteriore piccola tregua di tre giorni, Garibaldi fa entrare nella stanza Sirtori, suo Capo di Stato Maggiore, e Cenni, Comandante della Piazza, perché stendano in modis et formis la tregua.
In sostanza, dal punto di vista prettamente militare, Garibaldi pretende – ed i due parlamentari Borbonici si affrettano ad assentire – che l’Esercito Duosiciliano si ritiri nella cittadella di Castellammare (il cosiddetto Castello) e nella pianura sottostante al Monte Pellegrino, dove potranno fare il loro bell’accampamento. Tutta quanta la città sarà così lasciata nelle mani di Garibaldi e delle sue truppe.I picciotti di mafia, lo anticipiamo, potranno fare quella che volgarmente si chiama la scanna. Ne potranno fare, cioè, di tutti i colori. Ovviamente, nell’accordo non c’è solo questo. Fra i punti più qualificanti, ad esempio, c’è la consegna del denaro custodito alla Zecca (o Palazzo delle Finanze). Lasciamo, comunque, a Padre Buttà anche il penoso compito di riferirci sui contenuti dell’accordo.
«Ecco i patti del novello armistizio, firmato Francesco Crispi, qual segretario di Stato del Dittatore.
Art. 1° Consegna del Banco di Palermo con tutti i danari (bravo Crispi!); Art. 2° Prolungamento della tregua per tre giorni; Art. 3° Libero passaggio de’ viveri dall’una all’altra parte; Art. 4° Imbarcarsi i feriti regi con le famiglie; Art. 5° Scambio dei prigionieri di ogni garibaldino con due regi.
Avete mai letto nelle storie delle guerre, che, nella conclusione di una tregua, solo profittevole al vinto, si consegnassero a questi i danari del vincitore? Io non l’ho mai inteso dire, né letto; e suppongo che una simile cosa non si sia verificata mai al mondo. Oh! Signori Generali Regi, e signori Garibaldini e liberali infamatevi pure co’ fatti, che la Storia vi infamerà cogli scritti. I duci Napoletani non contenti di accordare al nemico tutti i vantaggi possibili per distruggere quel fido esercito che essi comandavamo, consegnarono allo stesso nemico il danaro dello Stato e dei privati, per metterlo nella posizione più comoda e sicura di far la guerra ad oltranza, come possessore di quell’attraente metallo, che tutto può e tutto vince. Crispi, creato allora Ministro delle finanze, essendo le sue á la baisse, trovò nel Banco di Palermo (attento Crispi) cinque milioni di ducati, pari a vent’uno milioni duecento cinquanta mila lire, moneta sonante, già d’intende, di oro e di argento; dappoiché il regno delle Due Sicilie non era regno di carta, come quello dell’Italia una!».(12)
Il Buttà, con l’occasione, non tralascia di riferire la voce di una tangente di ben sessanta mila ducati per il Generale Lanza.(13)
Trascrizione del manifesto nel quale sono riportati gli altri articoli della convenzione sottoscritta il 31 luglio 1860 tra Crispi ed il Lanza.
«SICILIANI
Il nemico ci ha proposto un armistizio che, nell’ordine di una guerra generosa, quale è quella che da noi sa combattersi, istimossi ragionevole non… (parola illeggibile che ci permettiamo di interpretare… «a senso»)
«respingere».
L’inumazione dei morti, il provvedimento dei feriti, quanto insomma è reclamato dalle leggi di umanità onora sempre il valore del soldato italiano. Per altro i feriti Napoletani sono pure fratelli nostri benché ci osteggiano
con nimistà crudele e si avvolgan tuttora nella caligine dell’errore politico;
ma non sarà guari che la luce del nazionale vessillo gl’induca un giorno ad accrescere le file dell’esercito italiano. — E, perché i termini degl’impegni contratti colla religione di una lealtà degna di noi, si pubblicano i seguenti
Articoli di convenzione fra i sottoscritti, a Palermo, il giorno 31 maggio 1860.
1. La sospensione delle ostilità resta prolungata per tre giorni a contare da questo momento che sono le 12 meridiane del dì 31 maggio, al termine della quale S.E. il Generale in Capo spedirà un suo aiutante di campo onde di consenso si stabilisca l’ora per riprendersi le ostilità.
2. Il Regio Banco sarà consegnato al Rappresentante Crispi Segretario di Stato, con analoga ricevuta, ed il distaccamento che lo custodisce andrà a Castellammare con armi e bagaglio.
3. Sarà continuato l’imbarco di tutti i feriti e famiglie non trascurando alcun mezzo per impedire qualunque sopruso.
4. Sarà libero il transito dei viveri per le due parti combattenti, in tutte le ore del giorno, dando le analoghe disposizioni per mandare ciò pie- namente ad effetto.
5. Sarà permesso di contracambiare i prigionieri Mosto e Rivalta con il 1° Tenente Colonna ed altro ufficiale o il Capitano Grasso.
Il Segretario di Stato del Governo Provvisorio di Sicilia
Firmato: FRANCESCO CRISPI
IL Generale IN CAPO
Firmato: FERDINANDO LANZA»
(7) Confronta G. R. Mundy, op. cit., pag. 137.
(8) G. R. Mundy, op. cit., pagg. 131 e 132.
(9) G. R. Mundy, op. cit., pag. 133.
(10) G. R. Mundy, op. cit., pag. 134.
(11) G. R. Mundy, op. cit., ibidem.
(12) G. Buttà, op. cit., pagg. 59 e 60. La cronaca di padre Buttà è senza dubbio «fedele». Nel- la stesura finale dell’accordo nel manifesto pubblico, tuttavia, il «passaggio» dei «danari» del Banco di Palermo sarà riportato al secondo posto, anche per ragioni d’immagine. La «sostan- za» del «fattaccio» rimane, però, integra.
(13) G. Buttà, op. cit., pag. 60.
Foto tratta da palermotoday.it
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