Siamo sempre a Palermo. La storia – totalmente falsa – ci ha tramandato di una città “in fiamme” accanto a Garibaldi e ai suoi “valorosi”. I “valorosi”, in realtà, a parte i mercenari ungheresi, erano i picciotti di mafia. Ma tutti – Garibaldi, garibaldini e mafiosi, come ci racconta Giuseppe Scianò – erano spacciati. Sono i generali borbonici, traditori senza ritegno, che, d’accordo con gli inglesi, impongono una grottesca tregua per salvare Garibaldi e i suoi degni compari mafiosi. E poi si chiedono perché in Italia la mafia vince sempre…
di Giuseppe Scianò
Il Generale Migy spezza la spada, perché il Luogotenente Lanza gli ha ordinato di non combattere contro l’Armata Anglo-piemontese-garibaldina e mafiosa
Nei giorni 28 e 29 maggio, il Lanza mette a segno uno dei suoi più riusciti colpi mancini a danno del Regno delle Due Sicilie. Il Re Francesco II ha appena inviato da Napoli due piroscafi con a bordo due battaglioni di Carabinieri Esteri, tutti soldati motivati e di alta professionalità. Sono prevalentemente svizzeri, tirolesi e bavaresi «napoletanizzati» e sono comandati dal valoroso Generale Aloisio Migy. Se intervenissero in un’azione contro l’Armata Garibaldina ne uscirebbero vincitori senza grande fatica.
Ma il Lanza saprà renderli inoffensivi. Il 28 maggio le due navi sono alla rada nel porto di Palermo e vengono fatte avvicinare alla cittadella di Castellammare. Con il loro apparire hanno già messo in pensiero l’Ammiraglio Mundy ed ovviamente anche i Garibaldini ed i picciotti di mafia.
Il Migy chiede, ma non riesce ad ottenere l’autorizzazione, di fare sbarcare le proprie truppe. È scandaloso!
Il Generale sbarca pertanto da solo e si reca al Palazzo Reale per parlare e per prendere direttamente disposizioni dal Lanza. Questi prende tempo. Dispone che i Carabinieri restino ancora sulle navi, in attesa di disposizioni. Dopo molte ore di attesa, arriva finalmente l’ordine del Luogotenente di fare rotta su Sferracavallo, borgata marinara a diversi chilometri dalla cittadella. Lì i Carabinieri Duosiciliani potranno sbarcare.
Ma il loro calvario morale e politico, ed anche militare, non è terminato. Pur volendo combattere, i poveri militari, dopo lo sbarco, con una lunga marcia si dovranno recare nei pressi del Palazzo Reale per acquartierarsi e restare immobili nel quadrilatero del disonore, assieme alle altre migliaia di uomini validi, obbligati a restare oziosi per consentire a Garibaldi di vincere senza problemi.
Il Migy non ci sta. Protesta energicamente con il Lanza. Il quale non molla e ripete gli ordini già impartiti, minacciando il peggio.
Il Luogotenente, che in Sicilia è l’alter ego del Re Francesco II, infatti, sa anche essere autoritario e sa farsi obbedire. Il Migy è costretto ad obbedire. Lo fa, però, soltanto dopo avere spezzato la propria spada in segno di protesta. E di dispregio per il Luogotenente. Anche se il malcontento della base aumenta, il Lanza non se ne preoccupa eccessivamente, perché ora sa di averla spuntata anche con il Migy. La tregua alla quale lavora, lo toglierà ben presto dall’imbarazzo e dai pericoli di una rivolta militare.
Garibaldi è l’unico che ha estremo bisogno di una tregua. Sarà accontentato in men che non si dica. Intanto, dal Palazzo Pretorio, Garibaldi, con la consueta abilità di demagogo, fa comizi alla propria claque di picciotti di mafia, lancia appelli, scrive lettere a destra e a manca, sottoscrive decreti e ordini che dicono tutto ed il contrario di tutto. Nasconde, così, le proprie paure e le proprie incertezze.
Ciò che lo preoccupa maggiormente è il fatto che la millantata rivoluzione del Popolo Siciliano in favore del Re Vittorio Emanuele e dell’Unità d’Italia, nella realtà siciliana non esiste affatto. Così come del resto non esiste neppure nella Napolitania, nella parte continentale, cioè, del Regno delle Due Sicilie.
Il suggeritore ed il braccio destro del Dittatore Nizzardo è un politico spregiudicato e di lungo corso, il quale, al momento opportuno, è capace di qualsiasi astuzia. Ed è anche molto preparato. Si tratta del Siciliano Francesco Crispi, ormai diventato Segretario di Stato, al quale è affidata la direzione del settore politico-amministrativo.
Garibaldi tuttavia ha molta premura di pervenire ad una tregua. Lo fa anche capire a quanti gli sono più vicini. Ha cieca fiducia nella protezione degli Inglesi e sa che, prima o poi, questi gli dipaneranno la matassa.
Il Dittatore è stato anche messo in contatto diretto con gli ufficiali Borbonici più corruttibili, soprattutto con quelli incaricati di lavorare alle trattative e più disponibili al tradimento ed al cambio di casacca.
Ed ha letteralmente invocato, presso gli alti ufficiali ed i diplomatici del Governo Britannico, presenti a qualsiasi titolo a Palermo, l’invio di mercenari (meglio se Zwavi del Nord-Africa), con procedura d’urgenza. Lo tranquillizza però il fatto che la Legione Ungherese (composta tutta di mercenari ungheresi) è già mobilitata e conta migliaia di soldati di alta professionalità. È, questa, da parte del Dittatore, una ulteriore caduta di stile oltre che un comportamento vergognoso sia dal punto di vista morale che dal punto di vista militare e politico.
La città di Palermo deve essere «regalata» con urgenza ai Garibaldini
Arrivano i nostri, ma il Generale Lanza fa finta di non capire…
Alle prime luci dell’alba del 30 maggio 1860, il telegrafista-ottico Agostino De Palma, dall’alto dell’Osservatorio del Palazzo Reale di Palermo, scorge un lontano luccichio di armi ed un inequivocabile movimento di truppe. Comprende subito che si tratta dei battaglioni agli ordini del Generale Giovan Luca Von Mechel, reduci dalla vittoria conseguita qualche giorno prima a Corleone sul Colonnello Orsini.
I Duosiciliani hanno lasciato alle loro spalle Villabate e sono quasi alle porte di Palermo, in direzione di Porta Termini. Il De Palma, funzionario ligio al proprio dovere, non ha dubbi. Sa bene che quell’avvistamento è importantissimo, perché i nuovi arrivati potrebbero capovolgere la situazione militare che si è venuta a creare a Palermo per il comportamento a dir poco omissivo del Luogotenente Lanza.
I Garibaldini, presto, potrebbero essere presi fra due fuochi. La beffa, la cosiddetta beffa di Corleone (o diversione di Corleone), potrebbe diventare un boomerang per Garibaldi. Ed è quello che i doppiogiochisti degli alti comandi Borbonici a Palermo non vorrebbero che accadesse mai. Si potrebbe creare, infatti ed immediatamente, una situazione che renda ancor meno giustificabile l’orientamento disfattista del Lanza in particolare, che è quello di pensare solo alle trattative di armistizio, già avviate su varie lunghezze d’onda.
I militari leali, che vivono dentro o fuori del Palazzo peraltro cominciano a sentire puzza di bruciato e manifestano sempre più palesemente il loro malcontento per l’assoluta mancanza di iniziative militari contro gli invasori.
Il De Palma da parte sua, vuole essere, però, sicuro di quel che ha appena visto. Aspetta ancora un po’, finché le luci incerte dell’alba non sono diventate più nette e luminose e gli danno la certezza di avere visto giusto.
Quando, finalmente, anche ad occhio nudo, riesce a bene identificare le truppe Duosiciliane e le loro divise, il bravo ottico-telegrafista corre giù per le scale e va ad informare il Generale Lanza, Luogotenente ed alter ego del Re Francesco II in Sicilia. Questi non mostra entusiasmo, ma non sottovaluta l’informazione. Vuole constatare, a sua volta e personalmente.
Faticosamente sale le scale che portano all’Osservatorio e scruta con attenzione l’orizzonte nella direzione indicatagli dal De Palma. Borbotta, scocciato, qualcosa. Poi, rivolgendosi al dipendente, gli dice di non aver notato niente di particolare. Neppure il polverone sollevato dai soldati in marcia. Ammette appena di intravedere alcune nuvole a bassa quota.
Niente di importante, comunque. Non vuole essere più disturbato per sciocchezze simili. Ha ben altro a cui pensare. È evidente che sta mentendo.
Il De Palma, che si sarebbe aspettato quantomeno un elogio, rimane allibito. Il Luogotenente, però, non ammette repliche. Visibilmente contrariato, dopo avere lanciato un’occhiataccia intimidatoria all’ottico-telegrafista, se ne va velocemente. Si precipita, come scriverà Carlo Alianello, «…ad affrettare l’armistizio».
Il De Palma deve fingere di non avere visto alcunché di importante… Anzi: di non avere visto niente. Ma non demorde. Avvisa gli altri suoi superiori e i collaboratori del Lanza. È sicuro di quanto continua a vedere in modo sempre più chiaro e più ravvicinato. È sicuro di avere avvistato qualcosa di determinante per la sorte dei combattimenti in corso. Peraltro dispone di ottimi cannocchiali che, confermandogli il possesso di buone facoltà visive, gli consentono di osservare ogni particolare. E riesce a provocare un saliscendi di ufficiali di alto grado, degni compari del Lanza. Compreso il Generale Marra.
È una continua delusione. Tutti, infatti, si dimostrano adirati per il fatto che il De Palma continui a vedere e a parlare di ciò che essi non vedono né debbono vedere. E che non vogliono neppure pensare.
Per concludere: il De Palma, se non vuole essere punito per insubordinazione (o subire sorte peggiore), dovrà convincersi di non avere visto e di non vedere alcunché di nuovo. Dovrà soprattutto tacere. Uomo avvisato…
Il caso De Palma sarebbe stato ovviamente ricordato, talvolta, da qualcuno degli storiografi più seri, ma non dalla più nota agiografia risorgimentale che o ignora il fatto o lo minimizza, senza metterlo adeguatamente in relazione con tutto ciò che a Palermo si verificherà in quel giorno e negli altri immediatamente successivi.
Lo storico Carlo Alianello ci descriverà la vicenda della quale era stato infelice protagonista l’ottico-telegrafista De Palma(1) e che la dice molto lunga sulla buonafede del Luogotenente Lanza.
«La mattina del 30 maggio 1860, mentre l’alba era ancora nitida e luminosa, il signor De Palma, telegrafista ottico, se ne stava sull’osservatorio del Palazzo Reale di Palermo con l’incarico preciso di vigilare se mai apparisse sulla strada di Villabate un luccichio d’armi e un muoversi di truppa: sarebbero stati i battaglioni del Generale Von Mechel, i quali accorrevano a percuoter sul fianco e a spezzare l’attacco garibaldino. Quel Von Mechel, da buon tedescone, faceva sul serio. Il De Palma era impaziente e aveva le sue buone ragioni perché c’era di mezzo l’armistizio famoso, sintomo e preludio di capitolazione, il quale doveva concludersi quella mattina stessa tra Borbonici e Garibaldini, a mezzogiorno in punto, sempre che non fossero arrivate prima le truppe scelte di Von Mechel, in cui solo schieramento avrebbe capovolto la situazione, chiudendo le camicie rosse in una trappola irta di carabine e di cannoni. Che se poi quelli fossero giunti più tardi, ad armistizio firmato, avrebbero dovuto starsene cheti anche loro con l’arma al piede, e di vittoria – o magari soltanto di salvezza – non si sarebbe parlato più. La soluzione di questo nodo era tutta nella buona vista del Signor De Palma, che sinceramente in cuor suo sperava di veder avanzare da Villabate quei famosi cannoni, quei cavalli, quelle baionette, quelle salmerie, prima di mezzogiorno. E infatti li vide; anche senza cannocchiale n’era certo, anche a occhio nudo. Scorse lontano sulla strada un luccicar d’armi e un polverone frazionato e regolare, che era segno di una colonna di milizie scaglionate in marcia. Balzò di gioia nell’animo e in tutta fretta mandò a informare rispettosamente Sua Eccellenza il Generale Lanza, alter ego di Sua Maestà (Dio guardi). Viene su il Generale Lanza, piano piano (ha l’età sua, poveretto!), trascinando dispettosamente la sciabola, e guarda e sbinoccola a dritta e manca: “Addò stanno? Polvere? Qua polvere? Umh… Mha! Corre il desio veloce, dello mio!”. Si torse i mustacchi, si ficcò un dito tra solito e collo e sbadi- gliando disse: “Niente, niente…: nuvole basse”. Fulminò con un’occhiata lo sbalordito telegrafista ottico e corse giù ad affrettare l’armistizio. Arriva dopo un’oretta il Generale Marra sbuffando cordialmente per via dei molti gradini che ci vogliono per arrivare lassù, lui piuttosto bolso e un tantin gravante: “Neh, guagliò, fammi vedere queste famose truppe…”. Il De Palma si sbracciava, quasi smanioso, perché quelle s’erano avvivate un bel po’: “Ecco i cannoni, signor Generale, i cavalli, le salmerie…”. “Seh! E pure l’anema ’e chi t’è… tu chi buò fa’ fesso?” E il Generale si raschiò la gola: “Giovanotto, tu hai dormito bene sta’ notte o staie sunnano ancora? O, al contrario, ti fossi fatta ’na bevutella di primo mattino, a stomaco vuoto?”. Egli voltò solennemente le spalle. Sull’uscio dell’osservatorio si diede una passatina al ventre per stirare le pieghe della tunica e andò via, solenne e furioso insieme. Un’altra ora, e saliva sulla torre il Capitano Rada ad accertarsi, per ordine di Sua Eccellenza, che i soccorsi non arrivavano ancora. “Capità” si precipitò il povero telegrafista: “Capità, presto correte da Sua Eccellenza, ché quelle stanno arrivando, le reali truppe! Mò si riconoscono pure i colori delle tuniche!”. Il Capitano guardò, aggrinzò la fronte e strinse le labbra: “Uhm… vedi un po’ che scherzi ti fa il sole sulla campagna! Che magari ti sembrano gente che cammina, soldati, o che so… e invece è il sole che scherza con le ombre… uno magari ci giurerebbe… stranissimo! Vedi mò che ti fa la natura! Sei stato a Messina tu, no? Embè, hai visto mai, o nessuno t’ha mai detto il fatto della fata Morgana? Vedi case dove non ci stanno, uomini, barche, cose, dove non ci sta niente… beh, tutto questo dovrebbe essere un fenomeno analogo. Tutta natura, è”.
“Qua’ natura, capità?”, strillò il De Palma. “Non li vedete i pantaloni rossi dei carabinieri e i giubbetti celesti dei lanceri con l’elmo che pare d’oro in capo? E i cannoni sui muli pure quelli so scherzi? Pazzielle? Capi- tà, ca’ nisciuno è fesso!”. E gli veniva da piangere per la grande passione e anche perché gli pareva che lo volessero far passare per matto. Il Capitano fece un sorrisetto, strizzò l’occhio e domandò: “Neh, don De Pa’, tu che bbuò ’a me? Se Sua Eccellenza, che è Generale in capo e niente di meno che alter ego, non ci vede, perché devo vedere io che sono soltanto un subalterno di Stato Maggiore? Politica… misteri… e ci debbo rimettere io? Aggì ’a fa ’o martire? Impara anche tu che mo sono arrivati tempi nuovi, perché quegli occhi che ti servivano bene sotto la buonanima di Ferdinando, mo, co su ’Re nuovo, guaglioncello, nun te servono cchiù”».
E il De Palma si strinse nelle spalle, avvilito sì, ma non meravigliato. Subito dopo l’Autore fa una precisazione che riteniamo doveroso riportare con la relativa nota bibliografica:
«Questa che c’è narrata non è una favoletta o un’estrosa invenzione. Si può leggere (e chi vuole la tenga per apologo) nella Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, estratta da documenti riportati. Le parole non saranno state proprio queste, perché abbiamo voluto dare una forma drammatica all’episodio, costruendo un dialogo, ma la sostanza è quella, fedelmente conservata».(2)
Il Luogotenente Lanza fa di tutto affinché i soldati Duosiciliani non combattano. Sa, infatti, che potrebbero vincere. Preferisce una tregua, che dia a Garibaldi il tempo di ricevere aiuti di ogni genere.
Nella stessa mattinata, il Lanza, anche se non lo potrà mai dichiarare apertamente, è terrorizzato per ciò che, assieme al De Palma, ha visto dall’Osservatorio del Palazzo Reale: le truppe del Von Mechel si accingono a marciare verso Porta Termini contro i capisaldi Garibaldini per rientrare a Palermo, nel cuore della città. Il Lanza teme che questa nuova iniziativa militare possa compromettere i suoi piani e quelli dell’Ammiraglio Mundy.
Deve bruciare sul tempo i suoi stessi soldati, così diversi da lui, che vogliono fare ad ogni costo il proprio dovere. Si affretta, quindi, a scrivere e ad inviare al suo amico-nemico Garibaldi una lettera con la quale lo invita a partecipare, in giornata, alla trattativa per un armistizio, da stipulare a bordo dell’Hannibal. Mediatore sarà l’Ammiraglio Mundy.
È sospetta la premura del Lanza. Ma è sospetto ed inquietante ancora di più il fatto che analoga premura dimostrino di avere il Duce dei Mille e l’Ammiraglio inglese. Se Garibaldi e la sua Armata fossero veramente i vincitori, se avessero realmente il consenso entusiasta dei cittadini di Palermo, se potessero contare su migliaia e migliaia di volontari, che motivo avrebbero di puntare tutte le proprie speranze su una tregua truffaldina?
Le vicende del 30 maggio 1860 sono da sole sufficienti per fare comprendere in tutta la loro gravità il ruolo ed i compiti del Lanza, che si occupa principalmente di non fare combattere i propri uomini e di pervenire urgentemente ad una sospensione delle ostilità sine die. Non già per amore della pace, ma per avere un pretesto valido per bloccare meglio i soldati e gli ufficiali Duosiciliani che vogliono battersi. Per evitare che il Von Mechel anche da solo, possa sconfiggere Garibaldi ed i suoi uomini.
È una lotta contro il tempo. Ma è anche una tappa fondamentale della grande marcia anglo-sabauda per la conquista del Regno delle Due Sicilie, contro la volontà e gli interessi dei popoli che ne fanno parte.
A Porta Termini già si combatte. Sono i soldati Duosiciliani i vincitori incontrastati. Motivo ulteriore, per il Generale Lanza e i suoi complici, per correre più veloce del vento, senza curare il resto. Riportiamo di seguito il testo della storica lettera, il cui originale finirà (guarda caso) molto presto nelle mani dell’Ammiraglio Mundy. Eccolo:
«Il Generale Lanza a S.E. il Generale Garibaldi. Avendomi l’Ammiraglio inglese fatto sapere che riceverebbe con piacere a bordo del suo vascello due de’ miei generali, affine di aprire con Lei una conferenza della quale l’Ammiraglio stesso sarebbe mediatore, purché Ella consenta a conceder loro un passaggio traverso le sue linee, io la prego di farmi conoscere se vuole consentirvi; e in caso affermativo (supponendo le ostilità sospese da ambo le parti) io La prego di farmi sapere l’ora in cui la detta conferenza dovrà cominciare. Sarebbe allo stesso tempo utile che Ella accordasse una scorta ai summenzionati due generali dal Palazzo Reale alla Sanità, dov’essi di imbarcheranno per andare a bordo. In attesa di una sua risposta, sono di V.E. ecc. Ferdinando Lanza.»(3)
(1) Carlo Alianello, La conquista del Sud – Il risorgimento nell’Italia Meridionale, Rusconi, Milano 1992, pagg. da 64 a 67.
(2) Archivio privato di Carlo Alianello, s.a., Italia 1863, alla data del 30 maggio, pag. 138.
QUI TROVARE LA DODICESIMA PUNTATA
QUI UN ARTICOLO DI IGNAZIO COPPOLA SULLA RIVOLTA DELLA GANCIA
Foto tratta da settemuse.it
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