In questa puntata del suo libro Giuseppe Scianò ci racconta come gli inglesi, stanchi dei guai e delle sconfitte subite da Garibaldi e dai garibaldini (anche a Corleone, pur essendo in vantaggio numerico e meglio armati, i seguaci del cosiddetto ‘Eroe dei due mondi’, sono stati sconfitti e costretti alla fuga) abbiano deciso di prendere in mano la situazione. Saranno loro, gli inglesi, ad occuparsi dell’entrate di Garibaldi a Palermo. La farsa continua
di Giuseppe Scianò
Un po’ di gloria per i soldati Duosiciliani a Corleone
Prodigi di valore dagli ufficiali Bosco e Del Giudice – La colonna Duosiciliana del Von Mechel nel frattempo ha marciato verso Corleone all’inseguimento delle truppe comandate dall’Orsini. Non appena arriva nei pressi della cittadina, viene fatta segno da un nutrito fuoco di fucili e di cannoni. I Garibaldini ed i picciotti di mafia, infatti, sparano furiosamente dall’alto della collina prospiciente, a qualche chilometro dall’ingresso della cittadina. E quindi da buona posizione. Sembra un’imboscata fatale. Si tratta senza dubbio di un vero e proprio fuoco di sbarramento.
Per contrattaccare, i soldati delle Due Sicilie debbono necessariamente attraversare la pianura che li separa dalla collina e procedere, poi, dal basso verso l’alto. I Garibaldini sono pure avvantaggiati numericamente, perché sono consistenti le bande dei picciotti che intanto si sono aggregate. I soldati Duosiciliani rischierebbero, se si avvicinano, di diventare facile bersaglio e di essere massacrati.
Ma non hanno alcun timore. Conoscono il loro mestiere. Sanno come comportarsi. I Comandanti del 2° e del 9° Reggimento Cacciatori si contendono l’onore di procedere al contrattacco. Ha la meglio il Bosco del 9° Cacciatori, al quale viene affidata l’azione dal prudente Von Mechel.
Dopo le prime schermaglie, si comprende che i Garibaldini, fortunatamente per i soldati Duosiciliani, sono inesperti nell’uso del cannone. I loro due pezzi di artiglieria vengono caricati a palla piena per avere maggiore gittata, ma i tiri sono molto imprecisi e le palle passano sopra la testa dei soldati Duosiciliani senza neppure sfiorarli.
La fucileria si dimostra altrettanto imprecisa e niente affatto sincronizzata. I Carabinieri Genovesi, vero fiore all’occhiello dell’esercito piemontese, sono, peraltro, tutti al seguito di Garibaldi. E, a quanto pare, sono fra i pochi Garibaldini che sanno sparare.
A un certo punto, il Capitano Del Giudice, avanzando con i propri uomini in formazione molto diradata, aggredisce con un vero e proprio blitz le postazioni di artiglieria, mettendo in fuga i Garibaldini, che lasciano tutto, compresi i due cannoni. Uno dei quali è quello che a suo tempo fu abbandonato a Pianto Romano dallo Sforza e conquistato poi dai Garibaldini. L’altro, invece, era stato fuso a Livorno e poi portato in Sicilia con la Spedizione. Neutralizzati i cannoni, il Bosco può procedere contro il grosso della colonna Orsini.
In breve tempo le posizioni dei due schieramenti si invertono. I Duosiciliani hanno la meglio e aggrediscono i soldati ed i picciotti dell’Orsini, i quali si danno a precipitosa fuga. Vengono inseguiti quel tanto che basta per toglierli di mezzo. E l’Orsini potrà così ripiegare finalmente su Sambuca Zabbut.(25)
«Tutto previsto e tutto calcolato», diranno in seguito i cronisti ed i cantori di parte garibaldina. E quella di Corleone sarà definita diversione o beffa e sarà considerata come una manovra diversiva, appunto, ben riuscita e frutto di… alta strategia. Certo è che, sostanzialmente, Garibaldi ed i suoi uomini non vengono disturbati nella loro marcia di avvicinamento a Palermo.
Pensiamo, tuttavia, che quella di Corleone non sia stata del tutto una beffa. E, se lo è stata, lo è stata a caro prezzo. In tal caso, però, i Garibaldini non avrebbero dovuto portare con sé (e lasciato per necessità sul campo) ogni ben di Dio. Compreso il frutto dei saccheggi effettuati nelle chiese e nei conventi Siciliani.
Insomma a Corleone i liberatori hanno perso molto in beni, in immagine ed in vite umane. Sentiamo in proposito il Buttà, il sacerdote siciliano, che della battaglia e dei fatti avvenuti a Corleone è testimone, come sempre, oculare e sincero. Anche se non del tutto imparziale.
«I soldati (dell’Esercito delle Due Sicilie, n.d.A.) si resero padroni di tutto l’equipaggio (equipaggiamento): erano molti (i) carri di viveri, di munizioni, di sigari e di abbigliamenti. Fra le altre cose si trovarono oggetti sacri di chiesa, cioè ostensori e calici. Questi ultimi furono consegnati il giorno seguente ai Rettori di chiese di Corleone, con la preghiera di mandare una circolare ai parrochi di quei paesi ov’erano passati i Garibaldini e le squadre, per restituirli alle chiese donde erano stati involati. Le bande dell’Orsini furono inseguite per molte miglia dai compagni d’armi, da Bosco e da pochi soldati, ed essendosi divise e disperse, Bosco non le curò più ed entrò in Corleone. Le perdite di quel fatto d’armi furono lievissime: tre soldati feriti, uno mortalmente».(26)
Il Cappellano militare ci racconta, altresì, il suggestivo incontro fra i soldati Duosiciliani ed il clero e la folta schiera di cittadini di Corleone che si erano mossi in processione verso l’Esercito Duosiciliano, risaltando il gesto dei soldati che «si inginocchiano di fronte alla processione religiosa».
Riportiamo un passo della cronaca di quell’avvenimento:
«Dopo il combattimento, la brigata continuò la marcia. E prima di entrare in Corleone, fu incontrata dal clero in processione con la Croce innanzi. A vederla, i soldati di avanguardia s’inginocchiarono. Fu questo un segno non dubbio della vera pietà della truppa, e fu ritenuto dai corleonesi come di buon augurio per quella città. Il Mechel assicurò il clero che non veniva a Corleone per far male ai buoni cittadini, e che si stessero senza paura e tranquilli. Solamente desiderava che la brigata fosse fornita di viveri, a questi si sarebbero pagati a pronti contanti. I corleonesi, fuggiti nelle campagne all’approssimarsi della truppa, ritornarono fiduciosi in città, e ci accolsero cordialmente. Tutti quei proprietari facevano a gara perché uno o più ufficiali alloggiassero nella propria casa. Io ebbi offerti diversi alloggi da ecclesiastici e secolari, preferii il convento di S. Domenico, ove trovavasi un frate mio amico compagno di studio».
È senza dubbio un momento di grande commozione sul quale tuttavia il Buttà non indugia più di tanto. Il buon Cappellano militare ci parla anche della intemperanza di alcuni poveracci locali, che avrebbero voluto fare passare per politico il saccheggio del palazzo abbandonato momentaneamente dal «ricco proprietario unitario e filo-sabaudo, che si trovava con Garibaldi».
Seguiamo, nel suo racconto, Padre Buttà:
«In Corleone non successe alcuna cosa importante in quelle 22 ore che vi dimorammo. Solamente alcuni ladri corleonesi – forse per dare una prova a modo loro che non erano rivoluzionari – scassinarono e saccheggiarono un palazzo di un ricco proprietario, che si trovava con Garibaldi, ed aveva mandata la famiglia ad altro paese. Non appena il Mechel ebbe contezza di quel saccheggio, mandò una compagnia di soldati, la quale disperse quei saccheggiatori e saccheggiatrici, salvando quella roba che ancor restava».(27)
Va detto, infine, per completezza di informazione, che ancora oggi, a Corleone, quella gioiosa giornata in cui i Garibaldini furono sconfitti ed i soldati Duosiciliani entrarono in paese da liberatori e da amici, viene ricordata non troppo fedelmente, ma viene comunque ricordata. E costituisce una ragione in più per esaltare la festa della Patrona, Maria SS. delle Grazie. Alla Madonna infatti la cittadinanza corleonese attribuì il merito dello sbocco positivo di questi eventi. Un vero e proprio miracolo, quindi.
Ovviamente per evitare i rigori della censura unitaria italiana, il miracolo è stato ed è ricordato sostanzialmente non come la sconfitta dei Garibaldini. Bensì come l’improvviso ravvedimento delle feroci truppe Duosiciliane nei confronti della popolazione locale. Di più la Chiesa, maestra di diplomazia, non poteva fare.
Ancora oggi sono pochissimi tuttavia i cittadini che conoscono bene come, nel 1860, siano andati realmente i fatti. La festa della Madonna delle Grazie di Corleone rimane una delle più suggestive feste religiose della Sicilia.
Preparativi per lo scontato ingresso vittorioso dell’Armata Garibaldina a Palermo
Il 26 maggio 1860 il Contrammiraglio Inglese compie un’ispezione personale alla vigilia dell’entrata dell’Armata Garibaldina in città. Fioccano gli inviti per assistere allo scontato ingresso vittorioso dell’Armata Garibaldina. Anche il principe di Lampedusa invita (per il giorno 27), un ufficiale inglese a salire sulla torre del suo palazzo per vedere l’ingresso in città di Garibaldi. È la volta buona. Ma il segreto dov’è?
Il Mundy, impaziente di vedere come stiano le cose, compie un lungo percorso in carrozza nella città e nei dintorni di Palermo attraversando le borgate dei Cappuccini, della Grazia, della Zisa, della Favara e delle tante altre località sulla individuazione delle quali gli storici ancora oggi si sbizzarriscono. È accompagnato dall’onnipresente Console Goldwin.
Alla Grazia, in un viottolo «limitato su ciascun lato da muri di fango», la carrozza è fermata da tre uomini armati che, puntando i fucili, chiedono agli strani turisti di qualificarsi. Il Goldwin risponde:
«L’Ammiraglio ed il Console d’Inghilterra».
I furfanti dicono:
«Bene, avanti!»(1) e li lasciano passare.
Il Mundy fa la scena di colui che resta ammirato e che crede sul serio che quei tre eroi siano le sentinelle avanzate dell’Armata Garibaldina. Non si pone nemmeno il dubbio che possano essere tre ladri o tre picciotti di mafia o tre campieri, che vigilano su quella contrada. E che hanno preferito non esporsi troppo con personaggi importanti. Peraltro gli Inglesi (’ngrisi, come si diceva), sono riconoscibili come tali a più di un miglio di distanza.
Prima di andare a vedere cosa stiano facendo i soldati dell’una e dell’altra parte, riportiamo il biglietto di invito che il Mundy riceve senza infingimenti e senza errori sul giorno e sulle modalità d’ingresso di Garibaldi a Palermo. Un bel biglietto inviatogli dal principe di Lampedusa. Guarda caso: anche questa volta è un nobile a compiacersi dell’entrata di Garibaldi e della simpatia inglese. E a non temere la rivoluzione!
«Dear Sir, ho saputo che una sollevazione avrà luogo domani mattina alle due; a quell’ora, o subito dopo, Garibaldi si troverà vicino Porta Sant’Antonino, dalla quale voi siete uscito questo pomeriggio, pronto ad aprirsi la strada in città alla baionetta. Il principe di Lampedusa permetterà ad un ufficiale di salire sulla torre in fondo al suo palazzo per poter dare uno sguardo ai contendenti».(2)
Va precisato in proposito che, nei piani di Garibaldi, l’ingresso della sua Armata in città sarebbe dovuto avvenire da Porta Sant’Antonino e da Porta Termini. Avverrà, poi, soltanto da Porta Termini.
Tutti, insomma, sanno tutto. Non a caso il Generale Lanza, facendo lo gnorri, continua a tenere inchiodate nelle posizioni fortificate o sulle navi le truppe Duosiciliane. Si guarda bene dall’inviare soldati su quello che sarà il percorso del Generale Dittatore per entrare a Palermo.
Gli ufficiali Inglesi intanto, in libera uscita, vanno e vengono dal campo di Misilmeri, dove sono ricevuti da Garibaldi, al quale fra l’altro consegnano carte e forniscono informazioni e documenti politico-militari riservati. Wilmot, Tenente di vascello, il suo collega Cooper e il Commissario Mr. Morgan faranno al Mundy il seguente racconto (o rapporto?):
«Garibaldi era in piedi al centro di un ampio recinto, fra un gruppo di quindici o venti seguaci, che indossavano pantaloni grigi e camicie di flanella rossa; anche il Capo vestiva un costume simile. I suoi principali compagni in quel momento erano suo figlio maggiore, Menotti, un giovane di 19 anni, alto e robusto, con un braccio al collo per via di una recente seria ferita; il Colonnello Carini, Siciliano; i colonnelli Türr, Teleki e Tüköry, ungheresi, e il prete Pantaleo, il quale, croce in pugno, aveva coraggiosamente combattuto a Calatafimi. I soldati intorno erano meri ragazzi che sembravano deliziati alla vista delle uniformi Inglesi. Garibaldi, dopo aver invitato gli ufficiali a sedersi ed a gradire un po’ di fragole fresche del campo, accennò al bell’effetto prodotto dalle salve di saluto sparate due giorni prima da tutte le navi da guerra in onore del genetliaco di S.M. e che egli aveva osservato dalle alture di Piana dei Greci. Parlò del suo affetto e rispetto per il popolo e la nazione inglese e della sua speranza di poter fare tra breve la conoscenza dell’Ammiraglio inglese. Si recò quindi nella sua tenda che consisteva in una coperta consunta sostenuta da paletti, davanti alla quale un ragazzetto, con l’appellativo di sentinella, passeggiava su e giù per tener lontana la folla. La Masa, il capo delle squadre del distretto di Misilmeri, era anch’egli in montagna con tre o quattromila uomini armati di vecchi fucili a pietra, picche, falci e daghe arrugginite. Essi erano stati Suddivisi in compagnie, con innumerevoli bandiere tricolori, verdi, bianche e rosse, spiegate attorno al loro campo, ed erano provvisti di un buon numero di musici che dovevano incitarli a gesta marziali. Quando gli ufficiali montarono in carrozza per tornare a Palermo, un amico del cocchiere tentò di salire a cassetta, ma ne fu impedito, per timore che fosse una spia desiderosa di passare attraverso gli avamposti dei regi sotto la protezione delle uniformi britanniche per poi ritornare con notizie utili agli insorti».(3)
È credibile il rapporto degli ufficiali Inglesi Wilmot e Cooper e del Commissario Morgan? Ne dubitiamo. Un’ultima considerazione per la giornata.
È il giorno 26 maggio 1860. È la vigilia dell’ingresso di Garibaldi in città. Molte strade sono libere da soldati e da ogni forma di vigilanza, grazie al doppiogioco del Lanza.
Ma come mai il Mundy ed i suoi concittadini britannici o i suoi informatori non riferiscono di masse in rivolta? Come mai non riferiscono di proclami rivoluzionari? Come mai non dicono di vedere il tricolore italiano sventolare a destra e a manca?
È semplice: di tutte queste cose, nella realtà non esiste neppure l’ombra. E, si sa, non sempre si può inventare di sana pianta. È vero che nel rapporto degli ufficiali che sono andati nel campo di Misilmeri (leggi: Gibilrossa, n.d.A.) si parla di «innumerevoli bandiere tricolori», ma è pure vero che le bandiere erano «spiegate intorno al loro campo» cioè intorno al campo dei Garibaldini. E soltanto lì… (ammesso che fosse stato vero).
Veramente il Mundy qualche simpatizzante della rivoluzione nella sua passeggiata lo aveva incontrato al Convento dei Cappuccini. Non ne parla però con entusiasmo. Si tratta di un resoconto sincero e completo? Ne dubitiamo fortemente. Ci troviamo, infatti, di fronte al solito documento confezionato a bella posta per dimostrare che gli Inglesi si erano comportati con la consueta correttezza. Quando invece, in realtà, avveniva il contrario.
Precisiamo, inoltre, che il Wilmot è l’aiutante di bandiera del Contrammiraglio Mundy. Non si tratta di un ufficiale qualunque e avrà detto a Garibaldi molto più di quello che possiamo immaginare. E di quel che dice il rapporto.
Facciamo anche rilevare come accanto a Garibaldi si trovino al momento della visita i colonnelli ungheresi Türr, Teleki e Tüköry. Una bella rappresentanza dell’apporto ungherese, cioè. Ovviamente il Mundy vuole evitare «che si vociferasse che davano incoraggiamento ai ribelli» (per ca- rità!… Chi oserebbe insinuare cose del genere?).
E, quindi, quasi cadendo dalle nuvole, dirama il memorandum che segue:
«Ai comandanti delle navi di S.M. a Palermo. Poiché ho appreso che le bande armate al comando del Generale Garibaldi si sono spinte fino a Misilmeri, borgo a poche miglia ad est di Palermo, e che parecchi ufficiali delle navi di S.M. al mio comando al ritorno dalle loro escursioni nella campagna si sono trovati al di là dei posti avanzati dalle Suddette forze, è mia decisa intenzione che, fino ad ulteriori miei ordini, tutti gli ufficiali, allorché a terra, si mantengano entro i limiti segnati dalle sentinelle delle reali truppe e che gli ordini contenuti nel mio memorandum Generale del 21 corrente, relativi all’uniforme, siano strettamente osservati. (Firmato)
G. Rodney Mundy, Contrammiraglio».(4)
Dopo aver detto che ha lasciato ai frati «una piccola elemosina per i poveri», l’Ammiraglio così scrive:
«Questi santi uomini dall’aspetto invero assai sporco si lamentavano amaramente delle prevalenti calamità e sembravano assai scontenti della loro posizione»; e fin qui il Mundy non trovava nulla da eccepire. Continua però a raccontare che i frati «Per ragioni non ben chiare non esitarono a proclamarsi in favore della rivoluzione. Non si riesce però a capire quali vantaggi potesse attendersi da una riforma del Governo questa confraternita di oziosi parassiti».(5)
Ci inseriamo nella riflessione del Mundy per dire che i frati saranno, sì, sporchi, oziosi e parassiti, ma non sono stupidi. Hanno cioè compreso che dietro la cosiddetta rivoluzione c’è il Governo Inglese, del quale, in Mundy e nel Console, hanno riconosciuto i rappresentanti. Da qui il loro favore.
Paura, quindi, e non convincimento, né simpatia per la rivoluzione.
Converrebbe al Mundy restituire ai frati la denominazione di «santi umini», perché – nonostante tutto – sono le uniche persone che nella sua passeggiata ha incontrato a favore della rivoluzione (sia pure… «per ragioni non chiare», né sincere).
A meno che il Contrammiraglio non voglia comprendere fra i filo-rivoluzionari anche i tre furfanti dei quali abbiamo parlato.
(25) Sambuca Zabbut è un’antica cittadina della provincia di Agrigento, che dista 100 km dal capoluogo ed è a 350 metri sul livello del mare. L’attuale denominazione è Sambuca di Sicilia. La cittadina veniva chiamata Zabbut fin dal Medioevo, quando apparteneva alla Diocesi di Monreale. Il nome originale in lingua araba era del resto Rahal-Zabbut. Secondo alcuni storici (Amico) si trattò di una concessione del Re di Sicilia, Guglielmo II, al Monastero di Monreale, che comprendeva «paese e casale dei saraceni». Nel 1860 il nome ufficiale del paese era già Sambuca, ma nel linguaggio popolare restava Zabbut. Da qui la doppia denominazione, di uso corrente, che sarà ufficializzata con R.D. del 3-12-1863. L’attuale denominazione di Sambuca di Sicilia venne adottata invece nel 1923 dal Governo fascista, al quale probabilmente non suonava bene l’etimo arabo (sia pure riconducibile all’antichissimo termine di Sambuco) e che d’altra parte doveva evitare la confusione fra il paese di Sambuca, esistente in Sicilia e quelli esistenti in altre regioni. Sambuca ha dato i natali allo scrittore Emanuele Navarro della Miraglia (8 marzo 1838 – 13 novembre 1919), di ideali unitari e garibaldino egli stesso; scrisse in francese e in italiano. La sua opera più nota è La nana. Nel 1885 scrisse Novelle siciliane. Nativo di Sambuca è anche il grande pittore contemporaneo Giambecchina, morto recentemente. Nel territorio di Sambuca, attraverso la co- struzione di una diga sul Carboj, è stato creato il lago Arancio di trentadue milioni di metri cubi d’acqua, interessante sia per ragioni climatiche, ambientali e paesaggistiche, sia per la produzio- ne di energia elettrica che per l’irrigazione delle campagne circostanti e sottostanti.
Foto tratta da ialmo.it
(26) G. Buttà, op. cit., pag. 45.
(27) G. Buttà, op. cit., ivi.
(1) G. R. Mundy, op. cit., pagg. 89 e 90.
(2) G. R. Mundy, op. cit., pag. 91 e 92.
(3) G. R. Mundy, op. cit., pagg. 92 e 93.
4) G. R. Mundy, op. cit., pagg. 93 e 94.
(5) G. R. Mundy, op. cit., pag. 89.
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