Questa rubrica – curata da Giovanni Maduli – ci racconta, attraverso scritti e testimonianze, la storia del popolo del Sud che si ribellava all’occupazione da parte dei piemontesi dopo la ‘presunta’ unificazione italiana. Sono testimonianze incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto. Oggi parliamo di Ferdinando II di Borbone al quale la storia italiana risorgimentale scritta dai vincitori ha attribuito il nome di “Re Bomba” per via del bombardamento di Messina. Un falso storico. Vediamo come sono andate le cose
di Giovanni Maduli
componente della Confederazione Siculo-Napolitana e vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud®, Associazione culturale
Continuando l’excursus di testimonianze relative al periodo post unitario che difficilmente possono essere soggette a “interpretazioni” o “valutazioni” diverse da ciò che effettivamente sono e denunciano, ecco altre testimonianze circa il cosiddetto “Bombardamento di Messina” del 1848, vigliaccamente attribuito a Ferdinando II che, da allora, venne soprannominato ingiustamente “Il Re Bomba”; su quanto avveniva in quegli anni a Trapani, Girgenti, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi e Marsala e su quanto avveniva nel corso del 1861 in quel di Campobasso.
“Mi si perdoni quest’orgoglio municipale cito l’esempio di Messina, che con 25 cannoni, fra i quali uno solo da 36, e undici mortai resistè tre mesi alle scariche di una fortezza guarnita da 200 cannoni di grossissimo calibro e da più che 50 mortai. Ma questi effetti prodigiosi non si ottengono senza prodigiosi sacrifizj, e quel popolo ha veduto con indifferenza convertirsi in mucchi di rovine i suoi palazzi e le sue case, arsa la pubblica biblioteca, arsi i ricchissimi depositi del suo portofranco, né ha esitato a rovinare ed ardere colle proprie mani tutti quelli edifizi che portavano impedimento alla difesa o che potevan servire di riparo agli offensori.”
Giuseppe La Farina, Della guerra attuale e degli ultimi casi del Veneto, Roma 1848, Lettera politica, emessa il 4luglio 1848, p. 7.
“Il furioso Giuseppe La Farina, orgoglioso delirando affermerà ai suoi astanti, che era necessario l’estremo sacrifico per una buona causa: bruciando la pubblica biblioteca, i ricchissimi depositi del suo Porto Franco, rovinando con le proprie mani tutti quegli edifici che potessero servire ai borbonici. Con pochi colpi di pennello, Giuseppe La Farina stava raffigurando ai rivoluzionari veneti la strategia messa in opera su Messina dalle forze fraterne. Altro che livore napoletano, altro che stragi invereconde commesse dai Borbone, i veri assassini di Messina furono le bande armate siciliane e una parte avvelenata dei suoi stessi figli. Così accadde che i liberali siciliani incendiarono le case, sventrando i palazzi, profanando le chiese se questo faceva comodo ai loro progetti; egli lo afferma con la sua bocca e lo pone a paragone, in rapporto alle azioni commesse dai suoi amici, presso il campo di battaglia trovato dentro le strade di Messina. Per una causa giusta, tutto era sacrificabile persino la vita di quelli con cui condivideva i natali”.
Alessandro Fumia, Messina, la capitale dimenticata, Magenes Edizioni, pag. 229.
“Non tutta la Sicilia era contro il governo di Napoli, questa verità si può elaborare, individuando quel corpo estraneo nel partito contro rivoluzionario. Le forze liberali fomentate dall’aristocrazia siciliana ostile al casto dei Borbone, per le ragioni più svariate, fin dal tempo in cui re Ferdinando ebbe a risanare il debito pubblico delle Due Sicilie, intaccando i privilegi e azzerando i monopoli, trovarono la predisposizione mentale di alcuni possidenti di Palermo, ad aprirsi alle richieste dei liberali siciliani, assecondati dalla corona britannica per sovvertire il governo legittimo. Messina da tutto ciò ne subiva il danno maggiore perché con la discesa in campo di queste forze, sarebbero saltate quelle leggi che le avevano permesso di aumentare notevolmente i suoi traffici e le sue finanze.
… La rivolta checché se ne pensi non fu movimento di popolo, ma la discesa in campo di un partito siciliano espressione di una minoranza, legatosi con una burocrazia italiana ai tempi sconosciuta, rimandando il tempo dell’invasione posto in essere dagli ideologici siciliani. La verità non è legittimata con la discesa in campo dei militari napoletani vittoriosi nella campagna militare del 1848-1849. Non furono i soldati ad annientare Messina, se nonché gli stessi siciliani che si dichiararono suoi liberatori”.
Alessandro Fumia, Messina, la capitale dimenticata, Magenes Edizioni, pag. 228.
Inoltre, eseguendo una dettagliatissima e lunghissima disamina tecnica dei campi di battaglia intorno a Messina, delle postazioni dei cannoni siciliani e della loro gittata; nonché dei cannoni regi, delle loro postazioni e della loro gittata – disamina che non posso qui riportare per ovvii motivi di spazio – il Fumia dimostra inequivocabilmente che i cannoni regi della Cittadella non avrebbero mai potuto colpire le case di Messina in quanto non disponevano della (eventuale) gittata utile.
G.M.
“Il proclama e la condotta del militare di Licata furono imitati a Trapani, Girgenti, Sciacca, Favara, Bagheria, Calatafimi, Marsala, ove fu distrutto anche il raccolto del vino, e in altri comuni”.
E l’acqua mancò per un’intera settimana!
Sempre D’Ondes Reggio, nella tornata del 7 dicembre 1863, “dà lettura dell’ordinanza d’un altro comandante piemontese che dispone l’arresto di tutti coloro da’ cui volti si sospetti d’essere coscritti di leva, e anche l’arresto dei genitori e dei maestri d’arte dei contumaci”.
“Questo avveniva a Palermo: i cittadini ricorsero al Prefetto che rispose nulla sapere e nulla potere! In una città di 230 mila anime, il capo del governo nulla sa, nulla può!”
“Questa lunga Iliade finiva con due catastrofi: la prima fu quella di Petralia: una capanna fu circondata dalla truppa, non per trovare un coscritto, ma per chiedere informazioni; gli abitanti erano tre, padre, figlio e figlia, e questi tre furono bruciati vivi per non aver voluto aprire!”.
Michele Antonino Crociata, Sicilia nella storia, Tomo II, pag. 112.
Campobasso, 10 agosto 1861
Il governatore di Campobasso era allarmato e stava in continuo contatto con la Luogotenenza di Napoli e col governatore di Benevento. Cialdini, da Napoli, aveva mandato ordini precisi al generale De Sonnaz: Stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione.
Il colonnello del 36° Fanteria ordinò al tenente Cesare Augusto Bracci di portarsi verso Pontelandolfo “per fare argine ai briganti e di battersi solo se sicuro di vincere”.
Alle prime ore dell’alba del 10 agosto il tenente Bracci, a capo di trentasette bersaglieri e cinque carabinieri, partì da Campobasso. Appena fuori dalla città molisana la truppa piemontese cominciò a razziare i campi e le case dei contadini.
Alla stessa ora cinquanta partigiani comandati da Martummè, con i loro cavalli veloci, si diressero verso Guardia Saframmondi, ove disarmarono la guardia nazionale e assalirono la casa del cassiere del comune di Faicchio, prelevando fucili e denaro.
Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, pagg. 146 – 147
Foto tratta da wikipedia
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