In questo capitolo del suo libro Giuseppe Scianò ci descrive un argomento oggi sempre attuale: il rapporto tra lo Stato italiano (che nel 1860 stava nascendo) e la mafia. Giuseppe La Masa recluta i ‘picciotti’. Il ruolo della mafia nel creare i disordini per ‘giustificare’ lo stesso intervento garibaldino. E lo storico inglese Denis Mack Smith, che nella sua nota “Storia della Sicilia medievale e moderna” ammette il contributo della mafia alla causa della ‘presunta’ unificazione italiana
di Giuseppe Scianò
Il Colonnello Eber, gentiluomo ungherese; prezioso e necessario «aiuto» per Garibaldi
25 maggio: consegnata la nota di protesta dal Contrammiraglio Inglese al Generale Lanza.
Restiamo a Palermo. Prima del ricevimento il Console Francese ha comunicato al Mundy che nel porto ben otto piroscafi Napoletani sono pronti ad aprire il fuoco sulla città. La notizia ci sembra esagerata perché la città non si sta ribellando e perché lo stesso Mundy aveva constatato, nel suo giro in carrozza di qualche giorno prima, che tutto era tranquillo. Nessuno circolava per le strade, se non i soldati.
Egli stesso aveva scritto:
«Dei duecentomila abitanti che conteneva, non se ne vedeva alcuno, né giravano veicoli, tranne quello che occupavo».(12)
Tuttavia anche i mercanti Inglesi sono preoccupati per la stessa notizia.
Il Contrammiraglio deve fare qualcosa. L’indomani si reca a fare visita al Luogotenente Lanza. Ne ha ben donde. Non si tratta di una interferenza secondo il Mundy, perché il Lanza lo aveva pregato di intervenire e gli aveva espresso il desiderio di «considerarlo suo amico e consigliere». E poi ha il dovere di tutelare la vita e i beni dei cittadini britannici.
Il Contrammiraglio ha già stilato e porta con sé la nota ufficiale, che riportiamo di seguito:
«Da bordo della Hannibal, Palermo 25 maggio 1860 – Signore, dopo la conversazione che ebbi con V.E. in merito alle materie contenute nella vostra lettera del 22 corrente, ho osservato con estrema ansietà che parecchie navi da guerra napoletane si imbozzano al traverso dei principali edifici lungo la marina, portando così i loro cannoni in punteria su luoghi dove non potrebbero ottenere altro effetto che la distruzione della città stessa, senza conseguire il risultato di reprimere un’insurrezione degli abitanti. Voglio ancora credere che questo cambio di punto di fonda della Reale Squadra intenda solo essere una dimostrazione; ma poiché il panico è ora universale, sento nuovamente il dovere di reiterare la mia preghiera che V.E. non voglia ricorrere ad un espediente tanto contrario ai sistemi della guerra moderna tra nazioni civili, e che in nessun modo potrebbe conseguire il risultato che Voi siete così desideroso di ottenere. Io ho, ecc. (firmato) G. Rodney Mundy – A S.E. il Regio Commissario Straordinario».(13)
All’incontro partecipano il Mundy con il Console Britannico Goldwin e, da parte borbonica, il Lanza, con il Colonnello Polizzy ed il Capo della Polizia Maniscalco. Il Lanza continua, con pessimo stile e volutamente senza accortezze diplomatiche, a fingere di essere un duro, dicendo che, se in città si fosse verificata la rivoluzione, avrebbe ordinato di sparare sui rivoltosi coi cannoni. Diciamo francamente che ci sembra evidente il gioco delle parti.
Come fa il Lanza a minacciare ferro e fuoco contro la città se fino a quel momento Garibaldi è stato tenuto a bada e può essere sconfitto definitivamente? Perché non affronta questo anziché i cittadini?
Non escludiamo l’ipotesi che il ruolo del Lanza sia anche quello di provocare panico, disordini, indignazione in una città che già il 4 aprile ha dimostrato di non fare lega con gli unitari e di non credere agli ideali delle squadre che in un modo o nell’altro avevano provocato i disordini ed il movimento.
Aggiungiamo che è proprio il Lanza che impedisce di combattere alle truppe a propria disposizione. Ed è proprio lui che lascia scoperte ed incustodite le porte della città che guardano nella direzione dell’Armata di Garibaldi (Porta Termini e Porta S. Antonino).
Nonostante il tono ufficiale – tutt’altro che cordiale, almeno in apparenza – e nonostante la verbosa schermaglia e lo scambio di offese fra il Goldwin e il signor Maniscalco (come il Mundy chiama il capo della polizia), poco prima della fine della discussione, il Contrammiraglio chiede al Lanza di risparmiare la vita ai «due prigionieri Piemontesi che, per quanto vestiti da soldati semplici, erano evidentemente persone di qualità».(14)
Il Lanza lo accontenta prontamente. Al termine dell’incontro il Mundy consegna la nota di protesta che già aveva in tasca e che abbiamo riportato. Insomma: se le cose dovessero andare proprio male ai Piemontesi, gli Inglesi avrebbero un motivo per intervenire con maggiore incisività e ufficialità di quanto non abbiano fatto fino a quel momento, e con forza adeguata!
Un’ultima annotazione del Mundy nel diario del giorno 25:
«È giunto il Colonnello Eber, gentiluomo ungherese, e spera di ottenere un comando nelle forze di Garibaldi».(15)
Ci permettiamo di dire che per Garibaldi l’aiuto di Eber sarà prezioso e necessario. E che è tutto previsto e calcolato dal Gabinetto Inglese. Il Mundy non può fare pertanto finta di niente, né può dire più di tanto.
Dell’ungherese così ci fornisce le notizie il Rosada:
«Ferdinando Eber, esule dell’insurrezione ungherese del ’48-’49. Era giunto in veste di corrispondente del Times di Londra, ciò che gli diede ampia libertà di movimento in città. Esperto militare, si rese subito conto dei punti deboli del dispositivo di difesa della guarnigione. Incontratosi con Garibaldi il 26 al Piano della Stoppa, contribuì molto alla sua decisione di entrare a Palermo da Porta Termini (Cfr. Trevelyan, Garibaldi and the Thousand, London, 1909, pp. 286-287)».
Marineo: la picciotta non vuole ospitare alcun garibaldino.
Torniamo in campo garibaldino o, per meglio dire, a tallonare la colonna che marcia con il Generale-Dittatore Garibaldi, affidandoci alle noterelle dell’Abba. Cerchiamo di individuare qualche spiraglio di verità su quei fatti, che tanto avrebbero condizionato le sorti del popolo Siciliano.
Il giorno 25 maggio l’Abba è a Marineo e ci racconta, tanto per cominciare, un aneddoto del tutto falso.
«Seppi che nella notte i regi, che c’inseguono, passarono poco discosti, per la strada militare, e che le nostre sentinelle gli hanno veduti. Vanno innanzi sicuri e fidenti di raggiungerci, e ci hanno alle spalle. Ora si comincia a capire la nostra ritirata di ieri e l’allegrezza rinasce».(16)
Nella settima edizione del libro, però, l’Abba avrebbe ammesso di avere scritto qualcosa di sbagliato, perché nella notte tra il 24 e il 25 maggio 1860 i soldati Duosiciliani erano fermi a Parco. La colpa ovviamente è della voce che, poi, sarebbe risultata falsa. Ci sono volute, però, ben sette edizioni del libro per ammetterlo, finalmente!
Un altro aneddoto – questo sicuramente vero – riguarda un episodio di cavalleria compiuto dallo scrittore: avendo avuto assegnato un alloggio per la notte nella casetta dove vivono una ragazza ed una donna anziana, l’Abba riesce, in qualche modo, ad essere accettato, come ospite, dalla donna anziana, che pure gli aveva in un primo tempo fatto capire il non gradimento. La picciotta, però, non sente ragioni e dice:
«In quella camera io non ci dormo più».(17)
Vista la mala parata, l’Abba, che pure poteva far passare guai seri alla piccola famiglia, prende lo schioppo e se ne va senza dir nulla. Comportamento da gentiluomo. Lo riconosciamo. Episodio marginale, questo, riportato dall’Abba appunto per compiacersi con se stesso di un piccolo gesto di comprensione e di cavalleria. Episodio, però, che ci conferma che la gente di Sicilia, il popolo vero e proprio, non gradisce i Garibaldini e tantomeno li vuole ospiti… Nonostante gli ordini impartiti dalla Massoneria e dalla mafia del luogo di volta in volta interessato.
Quando l’Abba ci descrive con dovizia di particolari il suo passaggio da Marineo, non pensa certamente che sarebbe stato scavalcato in quanto a fantasia, nel suo campo e nel suo mestiere da tanti altri autori risorgimentalisti.
Il Natoli, racconta, ad esempio, che Garibaldi «traversò Marineo in piena rivolta».(18)
Insomma: rivolte ovunque. Ma contro chi, se le guarnigioni dell’Esercito Duosiciliano erano state tutte ritirate per ordine della Luogotenenza? Come mai l’Abba non se n’è accorto?
È vero, piuttosto, che lo scrittore Natoli si conferma un maestro nell’arte di manipolare o di inventare qualsiasi episodio che potesse essere utile alla mitologia risorgimentale italiana. Tutto ciò lo diciamo senza nulla togliere alla sua conoscenza della Sto- ria della Sicilia. Arrivederci, Marineo! (19)
A Gibilrossa con La Masa ed i suoi picciotti.
A mezzanotte i Garibaldini entrano a Misilmeri.(20) Evidentemente l’ordine dei Massoni del paese e dei Capi filounitari, mafiosi e non, era quello che ad ogni finestra vi fosse un lume. Visto dall’esterno, quindi, il paese nella notte brillava e l’Abba poté ammirare «una miriade di luci».
Qualche altro scrittore parla di cento lumi. L’Abba si aspettava chissà quali festeggiamenti. Rimarrà deluso. Entrato in paese, lo scrittore non può fare a meno di constatare che «non vi era casa che non avesse un lume ad ogni finestra, ma gente per le vie poca».(21) Di più un agiografo non può dire.
Eppure quel ma ci pare, in sé, abbastanza significativo… Non è la sola osservazione dell’Abba, che ne aggiunge qualche altra, come ad esempio quando racconta:
«Entrai in un bugigattolo per bere una tazza di caffè, e vi trovai Bixio d’un umore sì nero, a vederlo, che me ne tornai indietro».
Non che il Bixio fosse un cuore allegro, ma riteniamo che la fredda accoglienza di Misilmeri abbia influito un bel po’ sul suo umore. E che i misilmeresi non abbiano mai amato i Garibaldini, se non nell’Opera dei Pupi, ma successivamente all’annessione. L’Abba se lo lascia sfuggire anche dalla narrazione del seguito della lunga giornata.
«E andai sulla piazza, dov’era un acquaiolo che andava dondolando la sua botticella come una campana, e vendeva bevande ai nostri che gli affollavano il banco. Egli guardava quei che bevevano con certi occhi, con certo riso, che mi pareva volesse avvelenare i bicchieri».
A pochi chilometri di distanza dal centro abitato di Misilmeri, a Gibilrossa, si radunano le squadre di picciotti, organizzate da Giuseppe La Masa. È questo il momento di maggior gloria del Generale Garibaldino, nato appunto a Trabia (in provincia di Palermo), e tornato in Sicilia al seguito dell’Eroe Nizzardo.
Fin dai primi giorni è stato sguinzagliato alla ricerca di agganci e di picciotti di mafia. Pare che ne abbia avuto, con le mediazioni mafiose, qualcosa come quattromila.
Tutti lì, pronti ad entrare a Palermo.
Sarebbe bene, a questo punto, soffermarci un po’ sulle squadre e sui picciotti in attesa di vederli entrare in massa a Palermo. Non sono sufficienti, infatti, gli accenni che fino a questo momento abbiamo fatto qua e là. I picciotti meritano di più… Ovviamente in senso negativo…
Una considerazione: picciotti di mafia e squadre a pagamento… Tutti malfattori e camorristi? Sembra proprio di sì!… Rare le eccezioni.
Il Brancaccio così scrive, per ben comprendere il ruolo delle squadre:
«Certi dell’appoggio se non altro morale del Governo di Torino anche i liberali moderati, subito dopo il moto della Gancia, cominciarono a darsi da fare iniziando anche il reclutamento di squadre con cui contrastare i movimenti popolari, ritenuti tanto più pericolosi in quanto incontrollati».(22)
L’Autore cerca, come si vede, una giustificazione un po’ strana, ma ammette il fatto: il reclutamento di bravacci. A proposito del reclutamento, il sottile politico Brancaccio di Carpino, scrive:
«Si andava giornalmente nelle vicine compagne per arruolare sotto la bandiera tricolore quei contadini animosi, che per istinto nativo odiavano la tirannide pari alle classi più colte, le quali le detestavano per convinzione e per principi. Era dura necessità reclutare gente di ogni risma: vi si era sventuratamente costretti da forza maggiore, e non potendosi essere arbitri della scelta, si doveva accogliere tutti colori che dicevano essere pronti a combattere».
Ci pare doveroso riportare anche la puntualizzazione che il nobile scrittore ritiene opportuno fare a proposito dei picciotti (come abbiamo visto, e ne siamo dispiaciuti, preferisce definirli contadini):
«Il volersi però sostenere da taluni che i gregari componenti le squadriglie rivoluzionarie erano tutti malfattori e camorristi, ciò non è esatto, anzi errano (sic!). Uomini tristi ce n’erano pur troppo, ma gli onesti non facevano difetto, né è giusto confondere gli uni con gli altri in un fascio, e giudicarli alla stessa stregua».(23)
Senza dubbio: non bisogna generalizzare. Ma, a sua volta, l’aristocratico Brancaccio di Carpivo non sa che gli siamo molto grati per la descrizione che, proprio lui, ci ha fatto delle squadre e dei picciotti, assoldati già prima dello sbarco di Garibaldi. Qualche eccezione (rara, riteniamo) non poteva infatti che confermare la regola.
Abbiamo riportato questa testimonianza soprattutto per dimostrare ancora una volta che le squadre (e fa bene Ippolito Nievo a definirle bande) non erano affatto composte da volontari idealisti, bensì da gente pagata, assoldata. Ed era anche gente di mafia, come si lascia sfuggire il Brancaccio, usando il termine camorra, allora in voga.
Il termine mafia (anzi maffia), infatti, diventerà di uso comune soltanto dopo l’annessione della Sicilia e dopo che l’onorata società avrà fatto un salto di qualità, grazie al proprio inserimento nell’epopea risorgimentale. Il ceto borghese sarà costretto – per avere tranquillità e non diventare facile preda o oggetto di violenze ed estorsioni – ad assoldare a sua volta altre squadre o a pagare il pizzo a quelle esistenti.
La situazione, insomma, diventa caotica ed il Popolo Siciliano (che non si può identificare né con il gruppo aristocratico unitario, né con il Governo Duo-siciliano (24), né con le mostruose squadre dei picciotti di mafia e né, soprattutto, con la stessa mafia) è costretto a vederne ed a subirne di tutti i colori.
Dobbiamo fare rilevare, altresì, che il bluff (o l’impostura che dir si voglia) del valore delle squadre è stato avallato involontariamente dalla precipitosa decisione della Luogotenenza Borbonica di fare acquartierare (o meglio ritirare) le forze armate presenti in Sicilia prevalentemente nelle tre grandi città di Palermo, Messina e Catania.
Lo scopo dichiarato era quello di contrastare eventuali ribellioni delle popolazioni o gli attacchi delle squadre-bande attraverso l’azione di colonne mobili che sarebbero dovute accorrere ovunque ve ne fosse stata la necessità. Lo scopo reale rimane invece quello di attuare il tradimento necessario ad agevolare l’impresa garibaldina.
Di fatto si regalavano infatti le campagne ed i centri minori alla mafia, alle bande, ai picciotti. Ed i picciotti così, oltre che per terrorizzare, per rapinare a volontà e per poter scorrazzare in lungo ed in largo compiendo violenze di ogni tipo, vengono utilizzati nell’ambito del disegno anglo-piemontese per dimostrare che in Sicilia divampa la rivoluzione unitaria filo-sabauda. E che l’invasione garibaldina, pertanto, è voluta, giustificata e legittimata da questa rivoluzione.
Ribadiamo un concetto già accennato: ieri come oggi è ingiusto, oltre che profondamente sbagliato, confondere il Popolo Siciliano con la mafia. Ed è altrettanto sbagliato pensare che la mafia abbia il diritto di rappresentare la volontà, i sentimenti, le esigenze e le speranze del Popolo Siciliano. Questo equivoco lo comprende bene anche un unitario di ferro che però conosce bene la Sicilia: Francesco Crispi.
Non a caso viene definito, nel bene e nel male, la testa pensante dell’Armata Garibaldina.
Ricordiamo che il 25 maggio 1860, nei pressi di Misilmeri, scrive il foglio d’ordine per il Colonnello Orsini con la disposizione del Duce dei Mille di percorrere con l’artiglieria i distretti di Corleone, Sciacca e Bivona. Qui il Crispi si lascia andare ad una raccomandazione:
«Ti prego di organizzare le milizie affinché potessimo (sic!) liberarci dalle squadre».
Insomma le squadre fanno schifo financo ai Garibaldini. Ma saranno utilizzate ancora come tali per occupare Palermo e per terrorizzare la popolazione. Nonché per fare la clack al Dittatore, fra una rapina e l’altra, fra un saccheggio e l’altro, fra una violenza e l’altra. S’intende: il decreto dello scioglimento delle squadre e della diversa utilizzazione dei picciotti sarà emanato soltanto il successivo 14 giugno.
Ma avrà un valore relativo per il ruolo effettivo dei picciotti.
I picciotti dunque se ne andranno? Non lo sappiamo con esattezza. Quello che possiamo assicurare è che la mafia resta. E che farà tanta carriera. E che le bande continueranno a moltiplicarsi, a scorrazzare e a delinquere in ogni angolo della Sicilia, rendendo impossibile qualsiasi tipo di resistenza popolare all’avanzata garibaldina.
E la mafia fa il salto di qualità.
Per i picciotti di mafia dunque prospettive di paga, di bottino e di… potere politico. Parola di Denis Mack Smith, il quale – come già accennato – non si discosta molto dallo schieramento degli scrittori risorgimentalisti. E scrive:
«Più importante ancora fu il fatto che il crollo della legge e dell’ordine diede il via libera alle bande di tipo mafioso che erano sempre pronte ad approfittare di un momento del genere per estendere la loro autorità. Di Miceli e Scordato, dopo aver appoggiato la rivoluzione del 1848, si erano schierati dalla parte dei Borboni vittoriosi nel 1849, ad un certo momento divennero di nuovo attivi rivoluzionari, perché essi prosperavano nel disordine e sentivano che se avessero permesso che queste forze popolari sfuggissero al loro controllo ciò non avrebbe rappresentato una minaccia ai loro imperi privati. Non è improbabile che alcuni capi banda avessero dei genuini scopi politici, ma possiamo tranquillamente immaginare che i moventi principali fossero la prospettiva di paga e bottino, l’occasione di distruggere un gruppo rivale, bruciare gli archivi della polizia, liberare i loro amici dalla prigione e dare al proprio nome un aureola di terrore e di rispetto in una zona la più vasta possibile. Questi mafiosi non erano semplici criminali. Il crimine era per essi solo un mezzo per ottenere denaro e potere. La rivoluzione politica rappresentava un altro mezzo; e per questo strano fatto aiutò la Sicilia a dare un contributo decisivo e una spinta in parte inconsapevole alla causa dell’unificazione italiana».
Per concludere questa breve carrellata sui picciotti abbiamo, alla fine, citato Denis Mack Smith, sulle cui analisi non concordiamo molto frequentemente, ma al quale diamo atto di essere stato uno dei pochissimi autori a parlare del contributo della mafia alla causa dell’unificazione italiana.
Non è poco in tempi di… omertà. E dell’ignoranza di Stato.
(12) G. R. Mundy, op. cit., pag. 69.
(13) G. R. Mundy, op. cit., pag. 85 e 86.
(14) G. R. Mundy, op. cit., pag. 87.
(15) G. R. Mundy, op. cit., pag. 88.
(16) G.C. Abba, op. cit., pag. 106 e 107.
(17) G.C. Abba, op. cit., pag. 108.
(18) L. Natoli, op. cit., pag. 207.
(19) La cittadina di Marineo, quale grosso modo è oggi, venne costruita nel 1540 dal nobile Francesco Beccadelli di Bologni. Aveva però origini antichissime, tanto che nel periodo «sara- ceno» veniva ricordata per la presenza di mulini nel suo territorio. Anche il suo nome ha radici molto remote, probabilmente elleniche o preelleniche. In Siciliano si pronunzia Mariniu o Marine. Dista da Palermo una quindicina di chilometri. Interessante è il castello che risale alla fine del XVI secolo e che è costruito sulla caratteristica «rocca» che sovrasta l’abitato di Marineo, in modo suggestivo e forse anche un po’ impressionante. Oltre che sede di numerose attività economiche legate all’agricoltura e all’agriturismo, Marineo vanta grande vivacità culturale. Ogni anno vi ci celebra un prestigioso premio di poesia, nel corso del quale vengono ammesse e premiate anche le composizioni poetiche in lingua siciliana.
(20) Misilmeri è una ridente cittadina, oggi, quasi alle porte della città di Palermo. Fondata dagli Arabi con la funzione di fortezza, a protezione appunto della capitale della Sicilia. La dizione del nome del paese è Mussulumeli, dalla quale deriva l’etnico mussulumilisi, termini, questi, tutt’ora molto usati in Sicilia e più vicini all’etimo che dovrebbe essere Manzil al Amir (casale dell’Emiro).
(21) G. C. Abba, op. cit., pagg. 111-112.
(22) F. Brancaccio, op. cit., pag. 92.
(23) F. Brancaccio, op. cit., pag. 93.
(24) F. Brancaccio, op. cit., pag. 99.
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Foto tratta da etsy.com
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