Questa rubrica – curata da Giovanni Maduli – ci racconta, attraverso scritti e testimonianze, la storia del popolo del Sud che si ribellava all’occupazione da parte dei piemontesi dopo la ‘presunta’ unificazione italiana. Sono testimonianze incredibili di un genocidio che ancora oggi viene tenuto nascosto. Oggi parliamo della rivolta di Misilmeri nel 1866. Poi dei ‘precursori’ del PD (i 600 milioni di lire scippati alla Sicilia all’indomani dell’Unificazione con l’operazione Manomorta). E della mafia che in Sicilia diventa Stato nel 1860
di Giovanni Maduli
componente della Confederazione Siculo-Napolitana e vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud®, Associazione culturale
Continuando l’excursus di testimonianze relative al periodo post unitario che difficilmente possono essere soggette a “interpretazioni” o “valutazioni” diverse da ciò che effettivamente sono e denunciano, verifichiamo che:
“Altri centri che insorsero in quei giorni (1866 n.d.r.) furono Villabate (dove persero la vita in un’imboscata 4 militi) e nuovamente Bagheria che innalzò la bandiera borbonica e dove furono uccisi tre Carabinieri, fra cui uno che si era rifiutato di rinnegare il Regno d’Italia.
Ancora più cruenti furono le rivolte a Misilmeri, paese situato a 11 chilometri da Palermo, che insorse la sera del 15.
Squadre armate, più organizzate, agli ordini di Domenico Giordano e Gian Battista Plescia, formate da latitanti e renitenti alla leva, entrarono in città accolte dal popolo, con illuminazione serale e la formazione di un Comitato politico e insurrezionale. Le campane suonavano a festa e fu corale l’appoggio agli insorti del clero locale. Fu assaltato il deposito della disciolta Guardia Nazionale, sequestrati oltre 500 fucili, munizioni, duemila misilmeresi si spinsero verso la caserma dei Carabinieri dove pure si erano rifugiati le Guardie di Pubblica Sicurezza. I rivoltosi chiesero la resa ma il maresciallo Grimaldi e il Brigadiere di P.S. De Lupis resistettero fino all’ultima cartuccia, oltre il mezzogiorno del 18”.
– Tommaso Romano, Sicilia 1860 – 1870, una storia da riscrivere, ed. ISSPE, pag. 133
“In Sicilia, i due terzi delle terre esistenti erano di proprietà delle corporazioni, delle congregazioni religiose, dei conventi e della Manomorta, che davano lavoro e occupazione a decine di migliaia di famiglie siciliane. La confisca di questi terreni e la loro nazionalizzazione permise allo Stato italiano di mettere all’asta in Sicilia ben 250.000 ettari. Una superficie enorme di terreni fu, così, trasferita dal clero ai latifondisti. Con l’intervento coercitivo della mafia, i contadini, che dovevano essere i legittimi destinatari di queste terre come promesso a più riprese da Garibaldi prima e dal nuovo Governo italiano dopo, furono esclusi dalla possibilità di partecipare alle aste, i banditori sottoposti a intimidazioni, così che pochi potenti compratori stabilirono degli accordi segreti, che eliminarono la concorrenza mantenendo i prezzi a livelli bassissimi. Il ricavo della vendita all’asta di tali terre, anche se a prezzi stracciati, permise al nuovo Stato italiano di incamerare nelle proprie casse ben 600 milioni di lire, una cifra enorme per quell’epoca che, aggiunta ai ducati d’oro rastrellati da Garibaldi alla zecca di Palermo e trasferiti in Piemonte, permise di coprire i costi delle guerre del Risorgimento e i debiti che i piemontesi avevano contratto nelle guerre contro l’Austria, così da portare in pareggio il primo bilancio dello Stato italiano.
La Sicilia, ancora una volta rapinata del suo, di tutto questo non ne ebbe nessun ritorno in termini di investimenti, di migliorie o di servizi. Con l’aggravante che i terreni acquistati dai grandi proprietari, che avevano appena i soldi per l’acquisto ma non per le migliorie fondiarie, finirono in gran parte abbandonati e incolti. Le decine di migliaia di famiglie che prima lavoravano tali terre, si ritrovarono improvvisamente senza lavoro, 15.000 unità nella sola Palermo, e furono costrette a emigrare. Fu così che iniziarono i grandi flussi migratori dalla Sicilia verso le Americhe e verso altri Stati europei”.
– Ignazio Coppola, Risorgimento e risarcimento – La Sicilia tradita, CNA Edizioni, pag. 97.
“Si potrebbe dire, forzando solo un poco i termini della realtà storica, che lo Stato unitario, almeno per quanto riguarda il comportamento della gran parte della classe politica, nacque in Sicilia nell’ambito di una strategia politica di tipo mafioso. Se si fa eccezione per i pochi autentici liberali dell’isola e per i patrioti formati dal mazzinianesimo, la maggioranza dell’estabilishment dell’isola dalla svolta unitaria nazionale attendeva una libertà equivalente alla possibilità di gestire in proprio, con minori intromissioni dall’esterno, gli affari siciliani. Ma anche gli autentici liberali e l’intero movimento garibaldino, per avere successo, dovettero tenere conto del senso e dei caratteri particolari di quell’attesa. E soprattutto dovettero accettare le speciali forze ‘popolari’ dalle quali essa era sostenuta ed alimentata”.
– Giuseppe Carlo Marino, Storia della mafia, Newton Compton, pag. 36.
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Foto tratta da quotidianodelsud.it
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