La storia di una malattia oggi molto diffusa a cominciare dalla “Carestia olandese” e dagli studi del medico Willem Karel Dicke. La Celiachia tipica e la Celiachia atipica. E la forma piuttosto rara di Celiachia silente, ma non per questo meno problematica
di Maddalena Albanese
Olanda 1944. Siamo nel periodo della “Carestia olandese”. La carestia, con la conseguente carenza di frumento, sembrava una iattura alla popolazione stremata dalla fame, che cercava nutrimento nei residui dei depositi alimentari o nei pochi vegetali che la natura donava. Ma ciò che fu un male per moltissimi, fu anche un bene per pochi. Quei pochi erano uomini, donne e bambini affetti da una patologia, ancora misconosciuta, la Celiachia.
Potremmo definire la Celiachia una sorta di “malattia del benessere”, una malattia entrata nell’organismo dell’uomo con l’introduzione nella sua dieta del frumento, avvenuta appena diecimila anni fa. La coltivazione del grano ha comportato, per la razza umana, la possibilità di trasformarsi da nomade a stanziale, ma ha anche esposto l’intestino dell’uomo alla digestione di una sostanza per la quale non era sempre e del tutto preparato: il glutine.
Ancora settanta anni fa la Celiachia non era una malattia ben definita: si sapeva cosa comportava (dolore addominale, diarrea, alterazioni dell’umore, incapacità ad affrontare sforzi anche minimi), ma non si sapeva quale fosse l’evento scatenante, né il suo meccanismo patogenetico. Un medico olandese, Willem Karel Dicke, dopo avere osservato gli effetti della carestia sulla salute di quei pochi, ha avuto l’idea che la Celiachia fosse associata o fosse conseguenza dell’assunzione del grano.
Ne ebbe la controprova quando, cessata la carestia e ricomparendo il pane sulle tavole degli olandesi, “i moltissimi” ripresero peso e furono soddisfatti e contenti, “i pochi” ricominciarono a stare male.
Da allora gli studi sulla Celiachia si sono moltiplicati. Come per molte malattie dell’uomo, le prime osservazioni risalgono ai primi secoli dopo Cristo. Ma è comprensibile come le origini, le caratteristiche e le conseguenze siano rimaste nebulose ai medici dell’Antichità, visto e considerato che ancora oggi le nostre conoscenze sono in piena evoluzione e i vari sottogruppi di Celiachia sono ancora in un divenire di definizioni e di protocolli diagnostici.
La Celiachia, “infiammazione cronica dell’intestino tenue, su base autoimmune, scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti” è una malattia proteiforme. Si manifesta più comunemente –Celiachia tipica – con dolore addominale, diarrea o stipsi, flatulenza, conseguenti all’assunzione di cibi contenenti glutine.
Meno frequentemente si manifesta con i sintomi ed i segni extraintestinali: anemia sideropenica, dismenorrea, infertilità , alterazioni del tono dell’umore, sintomi neurologici, dermatite erpetiforme, ritardo della crescita durante l’infanzia e così via dicendo; in questo caso di parla di Celiachia atipica.
Ancora più rara, ma più pericolosa, perché rischia di non essere diagnosticata, è la Celiachia silente. Questa non manifesta sintomi eclatanti, anzi spesso non manifesta alcun sintomo, ma presenta il danno endoscopico ed istologico proprio della Celiachia: l’appiattimento della mucosa con il conseguente malassorbimento intestinale.
E’ una malattia presente nel 15-20% dei familiari di pazienti celiaci. Viene diagnosticata grazie allo screening (genetico e sierologico con ricerca degli HLA DQ2-DQ8 e degli autoanticorpi specifici per la Celiachia) a cui i familiari dei pazienti celiaci vengono sottoposti. Questa classe di pazienti sarebbe comunque destinata nel tempo ad avere manifestazioni cliniche, ma molto spesso nella Celiachia il tempo è…salute.
La Celiachia latente è invece una forma clinica caratterizzata dalla positività dei tests sierologici anticorpali, dalla presenza di sintomi più o meno tipici, ma da una mucosa endoscopicamente ed istologicamente normale. Nel tempo e con la continua esposizione al glutine anche in questo caso la Celiachia diverrebbe manifesta sia per i sintomi intestinali o sistemici, sia per la positivizzazione della endoscopia e della biospia intestinale.
I protocolli diagnostici prevedono vari algoritmi in cui gli step sono sempre rappresentati dai sintomi del paziente, dal dosaggio di auto-anticorpi specifici (anti gliadina, anti endomiso, anti transglutaminasi), dalla valutazione genetica (HLA DQ2e DQ8) e dalla Gastrodigiunoscopia con biopsia che rappresenta , detto con termine tecnico, il golden standard diagnostico, vale a dire che se mostra il danno mucosale la diagnosi è confermata, se non lo mostra la diagnosi può essere esclusa.
Ma è sempre così? Sì, è sempre così, anche se questo dipende dalla metodiche di lettura delle biopsie digiunali che vengono utilizzate.
Di recente è stato introdotto nella valutazione istologica delle biopsie digiunali la ricerca di auto-anticorpi anti transglutaminasi mucosali con metodica dell’immunofluorescenza (questi auto-anticorpi li abbiamo già visti utilizzati come step diagnostico tramite dosaggio nel siero del sangue).
La loro valenza è stata individuata e studiata dai ricercatori del IRCCS materno infantile Burlo Garofolo della Regione Friuli Venezia Giulia e serve per la conferma diagnostica in pazienti in cui, ad esempio, viene fatto uno screening sierologico o perché familiari di celiaci, o perché sintomatici, dove la sierologia anticorpale risulta positiva, ma dove, per esempio, la mucosa intestinale appare normale sia endoscopicamente che istologicamente.
In questi casi il riscontro degli autoanticorpi antitransglutaminasi con la metodica di immunofluorescenza potrebbe servire a confermare nell’immediato una diagnosi che altrimenti si sposterebbe in avanti nel tempo, permettendo quindi di iniziare precocemente la dieta aglutinata che, come sappiamo, è l’unica terapia della malattia Celiaca.
E’ dunque un esame aggiuntivo che serve soprattutto nelle forme di Celiachia latente, per anticipare il più possibile una diagnosi verosimilmente inesorabile e che, intercettata precocemente (sempre che, dopo una prima biopsia intestinale negativa, non venga poi misconosciuta per sempre), riduce i tempi di esposizione della mucosa intestinale e degli altri organi alla tossicità che il glutine in questi casi comporta. Viene peraltro così ridotto il numero di indagini eseguite (esami ematochimici di controllo ripetuti nel tempo o anche endoscopie con biopsie ripetute più di una volta), riducendo così i fastidi per il paziente e le spese per il Servizio Sanitario Nazionale.
Concludendo, è opportuno, comunque, che tutto il protocollo diagnostico sia seguito da gastroenterologi o pediatri esperti, affinché ogni tassello sia messo al posto giusto per una corretta diagnosi di Celiachia, visto e considerato che, per ogni paziente diagnosticato, ve ne sono circa altri sei che non ricevono una diagnosi.
Diagnosi, quella di Celiachia, che, se trascurata nel tempo, fa la differenza “quoad valetudinem”, ma soprattutto “quoad vitam”.
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Foto tratta da cervianotizie.it