I mafiosi – ovvero le bande di picciotti di Sant’Anna e di Coppola – che si erano tenuti fuori dalla battaglia di Pianto Romano, appena capiscono che il piccolo reparto dell’esercito del Borbone è costretto a ritirarsi per ordine del generale-traditore Landi, si avventano sui morti e anche sui feriti per strappargli vestiti, armi e quello che trovavano. Sono scene vergognose che descrivono sia la vera natura l’impresa dei Mille (la mafia che entra nel nascente Stato) sia l’unità d’Italia…
di Giuseppe Scianò
Arrivano gli sciacalli – Soltanto quando sono certi che i combattimenti sono finiti, si rifanno vivi sul campo di battaglia i picciotti delle bande di Sant’Anna e di Coppola. Dalle loro fila escono molti sciacalli che si avventano, come belve, sui soldati Duosiciliani feriti e sui cadaveri per spogliarli di tutto. Se non visti si comportano ugualmente con i Garibaldini, morti o feriti che siano. Se qual- che soldato è ancora vivo, lo finiscono senza pietà per derubarlo anche dei vestiti, degli stivali, di tutto.
Per politicizzare i loro gesti infami, gli sciacalli spesso fanno scempio dei cadaveri, fingendo odio contro il nemico.
Per mettere una pezza, e per dare l’impressione che il fenomeno sia stato limitato, l’Abba racconta (o fa finta di raccontare) un aneddoto:
«I Napoletani morti, che pietà a vederli! Morti di baionetta molti; quelli che giacevano sul ciglio del colle quasi tutti erano stati colti nel capo. Là un mostriciattolo, che ai panni mi parve un villano da queste parti, inferociva su d’uno (sic) di quei morti. “Uccidete l’infame!”, Urlò Bixio, e spronò su di lui colla sciabola in alto. Ma il feroce scivolò fra le rocce e disparve, più bestia che uomo» (17).
Non ci dice, l’Abba, che anche queste belve umane e questi episodi (dovremo parlarne ancora in seguito e di più gravi) avevano una loro utilità per la riuscita dell’occupazione della Sicilia. È un fenomeno, quello dello sciacallaggio che, come abbiamo anticipato, vedremo ripetersi in altre occasioni e del quale, come uomini e come Siciliani, ci dobbiamo pure vergognare ed indignare.
Ma dobbiamo anche dire che sciacalli vi erano ovunque e vi saranno ai margini dell’Armata Garibaldina.
Dobbiamo però dire che questo fenomeno ha un retroscena storico e sociologico, perché conferma ancora una volta la qualità delle persone che vengono mobilitate a favore dell’occupazione della Sicilia e della parte continentale del Regno delle Due Sicilie. Sappiamo certamente che non tutti i picciotti sono del livello degli sciacalli dei quali abbiamo parlato e che non tutti i Garibaldini Siciliani sono del livello dei picciotti di Sant’Anna e di Coppola.
Ne conosceremo molti di più alto livello morale e culturale; conosceremo anche idealisti ed uomini onesti.
Tuttavia conosceremo pure non pochi elementi, peggiori degli sciacalli, che abbiamo già visto all’opera. E che non saranno mai puniti, perché anche loro sono preziosi per legittimare quell’occupazione, nonché la conquista esterna e le successive espoliazioni o discriminazioni a danno dei Popoli dell’ex Regno delle Due Sicilie. E del Popolo Siciliano in particolare.
Non vogliamo, insomma, con questa nostra puntualizzazione, assolvere dall’accusa di sciacallaggio e di espoliazione i soldati Garibaldini, o i mercenari al servizio dello stesso Garibaldi e di Vittorio Emanuele, che compiono anch’essi questi reati. Diciamo solo che gli sciacalli provenienti dalle file dei picciotti provocano in noi maggiore sdegno.
Dal punto di vista militare, Garibaldi rimane a lungo incredulo e frastornato per le sorprese di quella giornata.
La prima sorpresa era stata quella di vedersi attaccato con veemenza e determinazione da un ufficiale incorruttibile, coraggioso e deciso come Michele Sforza e dai soldati altrettanto coraggiosi agli ordini di quest’ultimo. E ciò proprio quando l’Eroe di Varese era convinto che il Generale Landi avrebbe pensato a lasciargli campo libero, senza colpo ferire.
La seconda sorpresa, questa volta gradita, era stata invece quella di ritrovarsi vincitore della battaglia quando sembrava che tutto fosse perduto.
Il Dittatore, tuttavia, si guarda bene dall’accennare a qualsiasi inseguimento. Cosa, questa, che sarebbe stata la scelta più naturale, se la vittoria, però, fosse stata reale e se lo stesso Eroe Nizzardo non avesse ben capito che, avanzando troppo, avrebbe trovato integro e ben armato il grosso delle truppe del Landi. Quei battaglioni, cioè, ai quali era stato vietato di partecipare alla battaglia.
Garibaldi ed i suoi uomini preferiranno la prudenza. Resteranno sul luogo. Si leccheranno le ferite e soltanto in un secondo tempo ripiegheranno su Calatafimi e la occuperanno dopo aver constatato che il Landi è già molto lontano. E che ha portato con sé quelle teste calde dell’8° Cacciatori e le altre truppe non meno pericolose.
Riflessioni e commenti sulla battaglia di Calatafimi, anche da parte di Garibaldi – Il Pianto dei Romani, la gioia di Garibaldi e la cena del Landi.
Diamo ora brevemente la parola ai due protagonisti ufficiali della battaglia taroccata di Calatafimi: Garibaldi e Landi.
Il Generale Dittatore- a differenza della maggior parte dei suoi agiografi – nelle sue memorie, non ignora l’esistenza del Landi, in quanto ben comprende che senza un siffatto avversario non avrebbe mai potuto vincere. Insiste, però, sulla superiorità numerica dei Borbonici e sulla incapacità dello stesso Landi. Esalta ovviamente all’inverosimile il valore dei suoi prodi. Probabilmente per far dimenticare che questi avevano agito per conto loro, più confusi che persuasi, nel caos più totale. Disobbedendo ai pochissimi ordini che lo stesso Dittatore aveva dato.
Seguiamo, attraverso le «citazioni», coordinate da Giovanni Cucinotta, il Garibaldi pensiero.
1. «Il 14 occupammo Vita, ed il 15 maggio cominciammo a vedere il nemico, che, occupando Calatafimi, e sapendo del nostro approssimarsi a quella volta, aveva spiegato la maggior parte delle sue forze sulle alture chiamate “il pianto dei Romani” (18). La situazione era suprema: bisognava vincere”».
2. «Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne se all’ultimo mio respiro, i miei amici vedrammi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio esso sarà ricordando. Tu fosti il combattimento di popolo più glo- rioso!».
3. «I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti del popolo, assaltavano con eroico sangue freddo, di posizione in posizione, tutte formidabili, i soldati della tirannide, brillanti di pistagne, di galloni, di spalline e li fugavano!».
4. «Ho già veduto alcune pugne, forse più accanite e più disperate; ma in nessuna ho veduto militi più brillanti dei miei borghesi fili- bustieri di Calatafimi».(19)
Insomma: menzogne e retorica, utili per l’agiografia risorgimentale e per la creazione di una cultura ufficiale, che verrà imposta a colpi di cannone ai vinti.
Ma non è finita…
In una recente pubblicazione di qualche anno fa sulla battaglia di Pianto Romano, a cura dell’Assemblea regionale siciliana e del Comune di Calatafimi, possiamo cogliere un’altra perla delle memorie del Duce dei Mille.
«La vittoria di Calatafimi, benché di poca importanza per ciò che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri, fu d’un risultato immenso per l’effetto morale incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico. I pochi filibustieri senza galloni o spalline, di cui si parlava con solenne disprezzo, avevano sbaragliato più migliaia delle migliori truppe del Borbone con artiglieria, ecc., e comandate da un Generale di quelli che come Lucullo mangiano il prodotto di una provincia in una cena… I Borbonici, sconfitti, durante la notte abbandonarono Calatafimi e ripiegarono su Alcamo per poi proseguire per Partinico e Palermo».
È evidente come Garibaldi continui a deridere galloni, spalline e divise dell’esercito delle Due Sicilie.
on ci sembra, per la verità, la persona più adatta per muovere critiche del genere, se si considera che il suo modo di vestire, a cominciare dal poncho, era tutt’altro che sobrio. Ma evidentemente il Duce dei Mille vuol far dimenticare che quei soldati Meridionali, che gli gridavano in faccia «Viva lo Re!», sapevano anche combattere valorosamente e che l’intervento inglese ed il tradimento di ufficiali corrotti e venduti avevano provocato la loro sconfitta e la fine del Regno del Sud. E ricordiamo che proprio a Calatafimi quei soldati avevano combattuto in condizioni di svantaggio, perché in grande inferiorità numerica, con scarse munizioni e traditi dal Generale Landi. Avevano lasciato il campo di battaglia a malincuore e soltanto dopo che il Landi aveva fatto suonare la ritirata.
Per quanto riguarda gli alti ufficiali Borbonici, traditori, rinunciatari o pentiti, sappiamo bene che molti di questi transiteranno nell’Esercito del Regno d’Italia con onori e riconoscimenti pari al peso del rispettivo tradimento. C’è poco, insomma, di che vantarsi per il Generale-Dittatore.
Aggiungiamo che, parlando del Landi, Garibaldi si inventa un paragone assai strano:
«…Generale come quelli di Lucullo che mangiano il prodotto di una provincia in una cena…».
Parla cioè di una voracità e di un’attitudine allo sperpero, che non hanno niente a che vedere con il comportamento sul campo o con le capacità militari del Landi stesso.
La voracità e l’avidità, messe in luce dall’Eroe Nizzardo, ci richiamano alla mente piuttosto l’episodio dell’assegno di quattordicimila ducati relativi al tradimento dello stesso Landi per denaro… E non è soltanto vox populi. Certamente Garibaldi non vuole che si parli di tradimento, ma, diciamolo francamente, nel cercare di distrarci dall’argomento, si tradisce a sua volta. Freud insegna.
Un «messaggio» che non convince – Il Generale Landi sarà utile all’economia dell’impresa dei Mille, non solo per il tradimento e per la ritirata, ma anche per un dispaccio inviato al Comando Generale di Palermo per chiedere ulteriori rinforzi.
Questo messaggio sarebbe stato intercettato dagli uomini del Colonnello ungherese Stefano Türr e non sarebbe mai arrivato a destinazione, secondo alcune versioni. Secondo altre versioni, i Garibaldini lo avrebbero fatto pervenire comunque al Comando Duosiciliano, dopo averne letto e diffuso il contenuto, nell’ambito di un’offensiva psicologica. Per gettare ancor più nello scoraggiamento e nel dubbio gli ufficiali dell’Esercito Duosiciliano.
Osserviamo, però e subito, che il messaggio del Landi non è cifrato. Imperdonabile distrazione, questa, che ci fa però aumentare il sospetto che si tratti di documento apocrifo. Ma, ancorquando autentico, quel documento in sé non avrebbe cambiato nulla. La sconfitta di Calatafimi, se seguita da opportune iniziative da parte del Comando Militare di Palermo, sarebbe stata facilmente neutralizzata e recuperata, con o senza l’apporto della colonna Landi. Leggiamo, comunque, il dispaccio del Generale Landi:
«…Aiuto, pronto aiuto. Le bande uscite da Salemi hanno coronato tutte le alture a Sud e a Sud-Ovest di Calatafimi – i rivoltosi sbucano da ogni dove – le masse dei Siciliani uniti alla truppa italiana sono d’immenso numero – i nostri hanno ucciso il gran Comandante della banda italiana ed hanno preso la sua bandiera che conserviamo noi – disgraziatamente un pezzo della nostra artiglieria caduto da un mulo è rimasto nelle mani dei ribelli – io sono a Calatafimi sulla difensiva… prego spiccare a volo un forte rinforzo di fanteria e almeno mezza batteria, perché le masse sono enormi – temo d’essere aggredito e mi difenderò quanto potrò… concludo che tutta la colonna si è battuta con vivo fuoco dalle 10 antimeridiane alle 15 pomeridiane»n (20).
Qual è la truppa italiana? Dov’è la rivoluzione? Notiamo facilmente che gli errori, o per meglio dire le inesattezze (per non dire le menzogne), sono così grosse e grossolane da rendere ridicolo il documento.
Il Landi sosterrebbe che le «masse dei “Siciliani”, unite alla truppa “italiana”, sono di immenso numero». Sappiamo bene che non è questa la situazione reale. Ma a chi giova, se non ai Garibaldini stessi, una versione dei fatti nella quale si dice che la popolazione combatte a fianco dei Garibaldini? E nella quale non si parla delle bande dei picciotti, ma solo della popolazione e della banda italiana?
Dobbiamo notare altresì che la differenza fra Italiani e Siciliani non era molto familiare al linguaggio degli ufficiali Duosiciliani. Lo è e lo sarà, costantemente, per gli ufficiali settentrionali venuti in Sicilia, prima e dopo la proclamazione del Regno d’Italia.
Ci pare strano che un Generale dell’Esercito delle Due Sicilie – al servizio cioè di quel Re che ufficialmente veniva chiamato «Sua Maestà Siciliana» – usasse in modo discriminatorio il termine Siciliani. Avrebbe usato l’espressione ribelli, rivoltosi, o altro termine simile. Era infatti la Sicilia che aveva dato e dava la denominazione al Regno di Francesco II. Delle Due Sicilie appunto, dal 1816.
Analoga considerazione va fatta per il termine «italiano». Sì, perché i Borbonici si sentivano a loro volta Italiani. Ed il Landi, in particolare, era stato carbonaro e fautore dell’Unità d’Italia. Italianissimo, quindi, egli stesso per cultura e tradizione… e per colonialismo culturale.
Entrando tuttavia nei dettagli più specificatamente militari, rileviamo che il Landi chiederebbe un forte «rinforzo di fanteria e almeno mezza batteria».
A quale scopo, se ha già deciso di ritirarsi? Sappiamo bene che è stato lui – e soltanto lui – a volere la ritirata, la sconfitta ed il ripiegamento (sarebbe più esatto dire la volontaria fuga) su Palermo. La richiesta di rinforzi è quindi assurda. Se fossero arrivati, gli invocati rinforzi a volo non avrebbero trovato più il Landi, né a Calatafimi, né nelle vicinanze. La sua ritirata è descritta da tutti, infatti, come precipitosa.
Un’altra assurdità merita di essere evidenziata. Se le masse dei Siciliani erano così enormi, perché il Landi avrebbe chiesto appena mezza batteria? E perché solo fanteria e non anche la cavalleria, che oltretutto sarebbe arrivata prima? Perché poi affermare che era stato ucciso il gran Comandante della banda italiana, cioè lo stesso Garibaldi? Una menzogna, questa, che sarebbe stata smentita subito e che avrebbe ridicolizzato ancora di più il Landi. Ed anche per questa menzogna potremmo trovare una spiegazione in chiave froidiana.
Solo i Garibaldini avevano interesse di esorcizzare, magari scherzandovi su, la paura che Garibaldi venisse ucciso. Paura reale durante la battaglia di Pianto Romano, allorché si gridò: «Salviamo il Generale!».
Insomma: se il dispaccio fosse vero, dimostrerebbe ancora una volta la
inaffidabilità del Landi (21). Se fosse falso (ipotesi, questa, alla quale noi daremmo maggiore credibilità), dovremmo dire che i manipolatori di parte garibaldina si sarebbero troppo divertiti ad esagerare; tanto da fare emergere tutto il loro interesse propagandistico, financo in modo assai rozzo. A rischio di effetto boomerang.
La fortuna dei manipolatori della storia della conquista anglo-piemontese-garibaldina e mafiosa della Sicilia, sarebbe stata quella di trovare una macchina propagandistica nella cultura ufficiale, successiva all’annessione. Una cultura dominante, cioè, ancora più spregiudicata di quella, loro contemporanea, del biennio 1860-1861. Una macchina che avrebbe accettato per buono quel documento utilizzandolo fino ai nostri giorni in maniera strumentale. E ciò, a prescindere da altre considerazioni.
A Calatafimi il giorno dopo. Garibaldi elogia i soldati della libertà italiana – Quando ormai è sicuro che la colonna Landi è ben lontana – unitamente a quel folle del maggiore Sforza ed ai soldati teste calde – Garibaldi decide di entrare nella cittadina di Calatafimi. Si insedia al Palazzo Comunale e, con l’aiuto di Francesco Crispi, emana decreti, ordini e contrordini dittatoriali. Tutti in nome dell’Italia e di Vittorio Emanuele.
Lo sottolineiamo per quanti insistono sull’inizio democratico e repubblicano dell’impresa garibaldina senza tener conto dei fatti. Il Nizzardo dà, altresì, l’imbeccata ai propri collaboratori su come interpretare e predicare le vicende mirabolanti delle quali sono stati protagonisti. In questo dimostra di avere quell’intuito e quel fiuto politico che lo hanno tante volte salvato da situazioni imbarazzanti.
Sa anche come inserirsi nella storia. Quella ufficiale, si capisce.
«Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa». Così inizia l’ordine del giorno che il volenteroso Abba dovrà leggere alla compagnia. Mentre è (comodamente) alloggiato nel convento di San Vito, in data 16 maggio 1860, l’Abba prende appunti e scrive:
«Che grido quando la compagnia udirà quest’altro passo: “le vostre madri, le vostre amanti, usciranno sulla via superbe di voi, colla fronte alta e radiante”» (22).
Nessuna pietà invece per i poveri morti, neanche per quelli di parte gari- baldina, che i Siciliani non seppelliscono e che i camerati vincitori quasi dimenticano alle loro spalle (23).
Nessun complesso di colpa per la vittoria scaturita dalla manovra del Generale Landi. Non aggiungiamo altro in proposito. Almeno per il momento. Continueremo però a seguire ancora un po’ il buon Giuseppe Cesare Abba per conoscere quelle che saranno (dal punto di vista della storiografia ufficiale) tutte, o quasi, le gesta del Generale Dittatore fino a Palermo ed anche oltre.
Continua
Foto tratta da indipendenzanuova.com
(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 75.
(18) È veramente strano che Garibaldi, a distanza di molti anni da quel glorioso 15 maggio 1860, non avesse ancora compreso che la denominazione di Pianto dei Romani, per indicare il luogo della fortunata battaglia, è un non senso. Peggiore della denominazione, pure questa italia-nizzata, di Pianto Romano, che tuttavia è più vicina al vero toponimo Siciliano di Chianti i Rumanu o di Chiantu Rumanu. Chiariamo subito: Chianti è il plurale sia di Chianta che di Giantu. Chianta – come ci dice anche Vincenzo Mortillaro nel suo vocabolario Siciliano-italiano – significa letteralmente vigna novella, oltre che generalmente pianta. Chianti è invece una forma dialettale del Siciliano per dire piantagione. Romano è invece il cognome della famiglia che era stata a lungo – e forse lo era ancora nel 1860 – proprietaria del grande fondo in questione, sul quale aveva impiantato alcuni vigneti. E Romano (se vogliamo essere ancora più pedanti) che è un cognome, non a caso molto diffuso in Sicilia, trae origine dal modo, a mo’ di soprannome, di indicare i funzionari dell’Impero Bizantino – cioè di Costantinopoli – che appunto si definiva «Impero Romano» e che era l’erede ed il continuatore del Sacro Romano Impero (inizialmente d’Oriente) e che voleva essere guida della Cristianità. Ma che, nonostante il nome, era profondamente «Greco». La Sicilia, anche per la sua centralità geografica, fu a lungo parte attiva di tale impero. Siracusa ne divenne addirittura la capitale, sede dell’Imperatore Costante II, sia pure per il brevissimo periodo che va dal 663 al 668 a.C. e la città di Messina fu, fino all’invasione araba, sede dello Stratigò. Per completare il quadro diciamo che in Sicilia, prima dell’avvento della dinastia degli Altavilla, la popolazione Cristiana parlava in maggioranza la lingua greca moderna – nella versione cioè bizantina – e nella religione seguiva il rito greco-ortodosso. Ciò per alcuni secoli, anche dopo la costante opera di rilatinizzazione e di ricattolicizzazione, promossa dai Re di Sicilia, tutti di stretta osservanza cattolica. Operazioni, queste, portate a compimento soltanto nel XVI secolo. Per ironia della sorte, quindi, in Sicilia il cognome Romano non significa affatto «cittadino di Roma», ma vuole indicare il «greco-bizantino» per antonomasia, almeno come etmo. Che «Pianto Romano» sia frutto di una traduzione errata e che ancora più errata sia la denominazione di «Pianto dei Romani» lo precisa anche Lorenzo Bianchi (op. cit., pag. 66) per correggere l’errore nel quale era caduto pure Giuseppe Cesare Abba, che aveva associato a quella denominazione una sconfitta degli antichi Romani. Ovviamente il problema non è quello dell’esattezza o meno del modo di chiamare il luogo della battaglia. Il problema è che a distanza di altri centocinquanta anni, la cultura ufficiale italiana pretenda di imporre falsità e menzogne su tutto ciò che riguarda la conquista del Sud e della Sicilia e in particolare delle sue conseguenze.
(19) Giovanni Cucinotta, Breve Storia della Sicilia, G. D’Anna, Firenze, 1958, pagg. 164 e 165. Come spiega l’autore «le citazioni, a volte grammaticalmente rivoluzionarie, sono tratte dalle Memorie, v. II, e da I Mille, Edizioni Nazionali, dello stesso Garibaldi.
(20) Dalla Sicilia alla Sicilia, 138 anni per l’Italia 1860-1998, opuscolo propagandistico pub- blicato nel 1998 dal Comune di Calatafimi e dall’Assemblea Regionale Siciliana. Una pubblica- zione, questa, che dimostra come sia ancora viva oggi l’esigenza per le autorità costituite in Sici- lia di rafforzare e riaffermare il mito risorgimentale. Dobbiamo però riconoscere all’autore dell’opuscolo (ignoto in quanto il nominativo non ne viene evidenziato) una certa dignità cultu- rale ed il coraggio di avere inserito qualche osservazione non conformista. Parlando dello sbarco a Marsala, ad esempio, così l’autore scrive: «A Marsala, nella prima fase, la popolazione reagì con una certa freddezza, non ci fu nessuna accoglienza ufficiale: la gente si chiuse in casa ed attese gli eventi. L’unico palese segno di accoglienza, e qui viene in evidenza una naturale per- plessità sul comportamento degli Inglesi, fu il caldo benvenuto che il Console di Sua Maestà Bri- tannica venne a dare a Garibaldi ed ai suoi». Un’altra osservazione, certamente in contrasto con l’orientamento prevalente nella cultura dominante è la seguente: «Aristocratici e borghesi si mos- sero in maniera più incisiva quando fu loro chiaro che l’unità d’Italia si sarebbe fatta sotto l’egida dei Savoia e non secondo i programmi dei mazziniani o dei democratici», i quali – ag- giungiamo – erano tuttavia stati posti, volenti o nolenti, al servizio di casa Savoia ancora prima della partenza dell’Armata Garibaldina. Insomma – sembra dire l’Autore – «chi vuol compren- dere comprenda». Ed i Siciliani sono capaci di comprendere. Fatte queste doverose citazioni, confermiamo la nostra opinione sulla finalità essenzialmente propagandistica dell’opuscolo.
(21) Nello Morsellino, op. cit., pag. 73, così parla della battaglia di Calatafimi e del personaggio Landi: «Che invece fu il Landi a tradire lo dicono i fatti: diede ordine di non combattere, e cominciata la battaglia lasciò lo Sforza solo, non mandò munizioni ed anzi ordinò la ritirata. Tenne consiglio per avere un avvallo per la ritirata e non avendolo ricevuto, con abuso di autorità levò il campo presentandosi a Palermo in misere condizioni. Che fuggisse per viltà, non si può credere perché la battaglia, lontana da lui, poteva finire vittoriosa se soltanto avesse mandato qualche altro battaglione fresco di rinforzo. Traditore invece glielo gridarono tutti, anche molti Garibaldini stessi».
(22) G. C. Abba, op. cit., pag. 78.
(23) G. C. Abba, op. cit., pag. 82. In proposito così scriverà l’autore con la data del 17 mag- gio 1860, due giorni dopo, cioè, la battaglia di Pianto Romano: «Mi fu detto che i nostri morti giacciono ancora insepolti sui colli del Pianto Romano!».
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