Si chiamano dazi doganali. E vanno introdotti anche per i prodotti agricoli che arrivano dai Paesi europei, cambiando i regolamenti comunitari. A cominciare dal latte di pecora estero, che non può essere venduto nel nostro Paese ad un euro al litro in meno rispetto al latte italiano. Se non si farà così le agricolture di alcuni Paesi dell’Europa scompariranno a beneficio di chi produrrà a costi inferiori con qualità scadente. Cosa che provocherebbe, nel medio-lungo periodo, un peggioramento della salute delle persone
Per l’agricoltura siciliana si è chiusa una settimana all’insegna della confusione. La rivolta dei pastori sardi è arrivata anche in Sicilia. E mentre in queste ultime ore di quanto succede in Sardegna si parla pochissimo, nella speranza che i sardi oggi vadano a votare per le elezioni regionali, dimenticando che la crisi provocata dal prezzo stracciato del latte di pecora, in questa bellissima Isola, interessa circa 100 mila persone, nella nostra Isola la crisi dei pastori è oggetto di discussione.
C’è stata una riunione convocata dal Governo regionale che, solo da qualche giorno, si è accorto dell’esistenza della zootecnia. E si registrano varie prese di posizione. Come quella di due parlamentari nazionali eletti in Sicilia nel Movimento 5 Stelle: Dedalo Pignatone e Antonio Lombardo, entrambi componenti della commissione Agricoltura alla Camera:
“È indispensabile affrontare e risolvere in modo strutturale la persistente crisi che attraversa l’allevamento ovicaprino in Sicilia – scrivono i due parlamentari – servono interventi urgenti per il superamento dello stato di crisi del settore”.
Dedalo Pignatone e Antonio Lombardo, dopo aver incontrato gli allevatori e produttori siciliani, e dopo aver partecipato alle manifestazioni di protesta dei giorni scorsi, si sono rivolti ai consorzi di produttori di formaggi che operano in Sicilia, chiedendo di poter conoscere alcuni dati sul settore.
Già questo è il primo errore. Nel settore zootecnico – regola che in agricoltura vale un po’ per tutti i settori – bisogna distinguere gli interessi di chi fa agricoltura dagli interessi degli industriali.
In certi casi le figure possono coincidere: è il caso di certe aziende che producono l’uva da vino per poi lavorarla e produrre il vino.
Nel caso della zootecnica siciliana i due parlamentari nazionali debbono sapere che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli interessi degli industriali non coincidono con quelli degli allevatori.
Ci sono, in Sicilia, piccole realtà zootecniche che, con grandissimi sacrifici, producono formaggi e li rivendono nei mercati cittadini. Ma è bene sapere che la Regione siciliana, negli ultimi dieci-quindici anni, ha vessato questi piccoli produttori, applicando regolamenti-capestro voluti dall’Unione Europea che, anche in zootecnica, ha fatto solo gli interessi degli industriali, non certo gli interessi dei piccoli allevatori e produttori di latte e formaggi.
La prima cosa da fare – se i due parlamentari grillini vogliono fare qualcosa di concreto per la zootecnia siciliana – è liberarla dalla gestione ‘sovietica’ dell’Unione Europea e della Regione siciliana, organizzando i controlli sanitari nell’interesse dei piccoli allevatori e non degli industriali.
Considerando i danni prodotti dalla regione siciliana in agricoltura, sarebbe opportuno togliere le competenze zootecniche a una Regione siciliana che ha fatto fallire anche l’Associazione regionale degli allevatori.
Citiamo solo un esempio. Fino ad oggi i piccoli produttori di formaggi siciliani possono vendere direttamente i propri prodotti nei mercati cittadini delle province limitrofe: i palermitani, ad esempio, non possono vendere i propri prodotti oltre Trapani ed Agrigento. Oltre non possono andare. Un’assurdità.
I parlamentari nazionali grillini dicono di sostenere “le rivendicazioni degli allevatori, da anni anello debole della filiera”, e parlano di “clima ormai non più sostenibile per chi lavora nel settore primario della nostra economia”. Chiedono, così, di conoscere gli stock/giacenze di latte su base annuale; la qualità e quantità del latte che viene prodotto annualmente; l’approvvigionamento eventuale fuori associati e/o estero; il numero degli associati e il prezzo medio al litro del latte”.
“Dobbiamo intervenire in favore degli allevatori per la salvaguardia del valore della produzione – affermano Pignatone e Lombardo – effettuando al contempo una serie di controlli, sia sui fattori di produzione, sia sulla remunerazione di una materia prima come il latte, oggi troppo bassa, indispensabili per contrastare l’agro-pirateria e la sofistificazione dei prodotti. A tal proposito, in commissione Agricoltura, stiamo lavorando a una mozione latte volta ad una certificazione e controllo completo della filiera”.
Tutte belle parole, per carità. Manca, però, un impegno su quello che è il problema non soltanto del latte, ma di quasi tutta l’agricoltura siciliana e, in generale, italiana: lo stop alla globalizzazione selvaggia dell’economia.
L’abbiamo scritto in questi giorni e lo ribadiamo: se in Sardegna e in Sicilia – restando alla questione del latte di pecora – un litro di latte, per remunerare il lavoro dei pastori, deve costare non meno di un euro e 30-un euro e 50 centesimi, non si può pensare di far circolare liberamente il latte di pecora rumeno prodotto a costi molto più bassi di quelli sostenuti dai pastori sardi e siciliani.
Se in Italia circola un latte di pecora a 25-30 centesimi di euro al litro, è chiaro che gli industriali lo preferiranno a quello sardo, a quello siciliano e, in generale, al latte di pecora italiano.
Le chiacchiere servono a poco: poiché il latte rumeno non si può bloccare, bisogna fare in modo – cambiando i regolamenti europei – che il latte di pecora che entra in Italia venga venduto allo stesso prezzo del latte di pecora italiano. Questi si chiamano dazi doganali. E vanno introdotti anche sui prodotti agricoli che arrivano dai Paesi dell’Unione Europea.
Altri metodi per bloccare l’attuale deriva non ne esistono.
Lo stesso vale per il pomodoro: se si continuerà a fare arrivare il pomodoro fresco e lavorato dalla Cina nessuno, in Sicilia, tra qualche anno, coltiverà più pomodoro.
L’Unione Europea dell’euro, su input delle grandi industrie di trasformazione, ha aperto le frontiere ai migranti. Questo ha abbassato il costo del lavoro agricolo in Europa, ma non ha risolto i problemi. Anzi ne ha creati altri: come il ritorno del ‘caporalato’.
L’arrivo in massa di migranti, nel mondo dell’agricoltura, ha peggiorato tutto il sistema: ha ridotto il costo del lavoro dei cosiddetti operatori avventizi, a tutto vantaggio degli industriali, non certo del mondo dell’agricoltura nel suo complesso.
L’esplosione della rivolta dei pastori sardi ci dice che il sistema seguito fino ad oggi è sbagliato. E ci dà anche indicazioni su che cosa fare.
La Romania vuole importare il latte di pecora in Italia e in altri Paesi europei? Benissimo. Sappia che il latte che esporterà in Italia costerà quanto il latte di pecora italiano.
La Tunisia vuole importare l’olio d’oliva in Italia? Bene. Sappia che lo venderà non a 2 euro al litro, ma a 10 euro al litro. Saranno i consumatori a scegliere, a parità di prezzo, quale olio d’oliva acquistare.
Questo è un punto importante. Perché oggi, la globalizzazione dell’economia, non privilegia le produzioni agricole migliori, ma quelle che costano meno: che quasi sempre sono le peggiori: prodotti scadenti sotto il profilo della qualità che fanno male alla salute e che, nel medio e lungo periodo, peggioreranno la salute dei cittadini aumentando la spesa sanitaria. Il tutto per fare gli interessi degli industriali.
Ovviamente, il blocco dei prezzi non deve essere attuato per tutti i prodotti agricoli, ma solo per i prodotti agricoli che un’area può produrre benissimo a km zero.
Se la Sicilia non produce datteri, i datteri possono essere importati al prezzo di mercato. Ma questo principio non può essere applicato al latte, al grano duro, al pomodoro, agli agrumi e, in generale, a tutto quello che si produce in Sicilia.
Se non si proteggeranno e produzioni tipiche dalla globalizzazione selvaggia dell’economia, molte produzioni agricole italiane o diventeranno di nicchia, o scompariranno, soppiantate da produzioni qualitativamente peggiori.
Chi si occupa di questo settore non può non notare la contraddizione dell’Unione Europea: da un lato ci propina le DOP, imponendo – nel caso del Pecorino romano – che venga prodotto con il latte di pecora italiano; dall’altro lato, però, consente ad altri Paesi europei che producono latte di pecora a prezzi di gran lunga inferiori a quello italiano (e forse con risultati qualitativi scadenti) di portarlo in Italia.
L’Unione Europea di oggi – che in questo come in altri settori manifesta ipocrisia allo stato puro – consente tutto questo perché non esistono i controlli.
La protesta dei pastori sardi, e adesso anche quella dei pastori siciliani, è esplosa perché i regolamenti europei non consentono agli industriali del formaggio – almeno fino ad oggi, domani non sappiamo – di produrre tutto il formaggio con latte di pecora a 25 centesimi di euro al litro.
Le vie sono due: o si blocca il prezzo del latte di pecora estero, facendolo pagare quanto quello italiano; o l’Unione Europea abolirà il divieto (che fino ad oggi, in molti casi, esiste solo sulla carta) di produrre formaggi con il latte estero e gli industriali faranno il bello e il cattivo tempo, creando grandissime difficoltà all’agricoltura del nostro Paese.
Tranne rari casi – per esempio nei vini di qualità – gli interessi delle industrie non coincidono con quelli degli agricoltori. La politica agricola la devono decidere gli agricoltori, non gli industriali.
E questo vale per la pasta, per il latte e, in generale, per tutti i prodotti dell’agricoltura che vengono trasformati.
Foto tratta da flickr.com
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