La vera storia dell’impresa dei mille 7/ La disinformazione: gli inglesi inventano le ‘rivolte’ contro i Borbone

19 gennaio 2019

Oggi cominciamo a entrare nel cuore di quel grande imbroglio passato alla storia come ‘impresa dei Mille’. Quando i Mille sbarcano a Marsala non c’era alcuna rivolta contro il regno del Borbone. Ma i giornali internazionali – guidati dai disinformatori inglesi (quelli del ‘giornalismo anglosassone’…) – raccontavano un sacco di frottole. Un po’ come oggi certi giornali scrivono le panzane per denigrare il Movimento 5 Stelle. O come la disinformazione sulle stragi di Stato

di Giuseppe Scianò

Va avanti la realizzazione del progetto Inglese di unificare l’Italia dalle Alpi al Mediterraneo – Il Rosada pone un quesito a proposito dello sbarco dei Mille a Marsala dell’11 maggio 1860:

“Il dilemma in cui lo sbarco di Marsala aveva posto il Gabinetto britannico non era invero di facile soluzione. Era più conveniente agli interessi europei e mediterranei dell’Inghilterra favorire con l’unificazione dell’intera penisola, la formazione di un forte Stato nazionale, in grado di emanciparsi gradualmente dall’influenza francese, o difendere l’autonomia del Mezzogiorno con le consuete armi di un’aggressiva ‘Gunboat diplomacy’, sperimentata ancora una volta all’inizio dell’anno nella guerra Ispano-Marocchina, per ottenere a suo tempo da un indebolito e più docile Governo di Napoli l’assenso al distacco più o meno larvato della Sicilia dal Regno e al suo passaggio nella sfera d’influenza inglese?”.

Il Rosada stesso risponde:

“L’Inghilterra, com’è noto, scelse la prima strada, timorosa che sul trono di Napoli potesse salire il candidato ‘in pectore’ di Napoleone III, Luciano Murat; ciò che avrebbe riportato i rapporti di forza in Mediterraneo al punto in cui si trovavano nel 1808, all’apogeo dell’Impero napoleonico” (7).

Insomma il Rosada conferma in toto – e ne dimostra la fondatezza e l’attualità – l’esistenza di un pericolo francese che tende a minacciare la supremazia britannica nel Mediterraneo. Conferma così anche le previsioni del Ministro di Francesco II, Carlo Filangieri di Satriano, che però nutriva soprattutto la preoccupazione che l’Inghilterra brigasse molto per restituire alla Sicilia la propria indipendenza, attraverso il distacco dal Regno delle Due Sicilie.

Il Filangieri, infatti, aveva scritto a Francesco II, qualche tempo prima, riferendogli del suo colloquio con il Cien Roguet, inviato personale dell’Imperatore dei francesi Napoleone III, la lettera datata 1 ottobre 1859, della quale il Rosada ha riportato il passo essenziale.

“…Mi chiese poi notizie della Sicilia, ed io senza misteri gli accennai gli scandalosi intrighi degli Inglesi, che fomentavano in tutta l’isola i disordini ed il malcontento contro il provvido Governo di V.M. per promuovervi una esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza, ed allora scoppiando una guerra fra i due colossi occidentali il Mediterraneo, invece di essere un lago francese, come lo vollero Luigi XIV ed i suoi successori, diventerebbe un lago inglese, protetto da Gibilterra, Malta, Corfù, Messina, Augusta, Siracusa, che sono i più belli porti d’Europa…» (8).

Il Rosada, dopo aver riportato la lettera e fatto una panoramica dei tentativi di «Napoleone il piccolo» (la definizione non è nostra, ma di Victor Hugo) di inserirsi nella Penisola italiana, in contemporanea con la sottrazione di quest’area all’influenza austriaca, aggiunge:

“Nel marzo del ’60, la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, necessario compenso per l’acquiescenza di Napoleone III alle annessioni nell’Italia centrale, ridestava in Palmerston la vecchia diffidenza per i nebulosi sogni di Renovatio Imperi del nipote del grande Napoleone, appena sopita dalla stipula del trattato di commercio franco-inglese del 23 gennaio precedente”.

E dopo qualche altra osservazione, altrettanto acuta, il Rosada afferma:

“Di qui la seconda missione siciliana del Mundy, il cui tipico carattere politico-militare l’Ammiraglio cerca invano di velare con lo stesso ripetuto pretesto della protezione a proprietà britanniche, che nessuno minacciava. […] Nelle acque siciliane tra il Mundy e il suo collega francese, Barbier De Tinan, come dodici anni prima tra i loro predecessori, Parker e Baudin, si riaccendeva il vecchio contrasto franco-inglese per la supremazia nel Mediterraneo, di cui l’isola costituiva una posizione chiave” (9).

In verità – ci permettiamo di dire – la flotta francese fece poco e niente: creò false illusioni e lasciò tutta l’iniziativa agli Inglesi. Cosa, questa, che vedremo assieme fra non molto.

Il Governo di Londra non improvvisa: ha già deciso e calcolato tutto.
Un momento di approfondimento…

Apprezziamo le osservazioni del Rosada, ma crediamo che egli abbia collocato nel maggio 1860 la decisione inglese di sciogliere ogni riserva e di passare decisamente alla costituzione di un grande Stato Italiano esteso dalle Alpi al Mediterraneo, nel quale fossero fagocitati ed inglobati, al più presto (anche a costo di intervenire con la forza), tutto il territorio del Regno delle Due Sicilie e le popolazioni che lo costituivano. Insomma, ci è sembrato che il Rosada sostenga che la spedizione dei Mille e lo sbarco di Marsala abbia fatto precipitare in senso unitario ed italo-sabaudo le scelte politiche della Gran Bretagna.

Il dubbio ci obbliga a esporre, con chiarezza, quella che invece è la nostra opinione. Per sostenere la quale non mancheremo di avvalerci anche della rappresentazione contestuale, puntuale e fornisce lo stesso Rosada.

 

Riteniamo, infatti, che il Gabinetto Inglese avesse già preso, da tempo, ogni decisione in proposito. Ancora prima cioè che l’idea della Spedizione avesse preso corpo. Un’idea alla quale l’Inghilterra dava sin dall’inizio il proprio contributo. Si pensi alla «patente per Malta» della quale ci ha parlato il Cantù (10).

I sintomi sono moltissimi. Ne citiamo alcuni relativi proprio alla Spedizione dei Mille. Intanto la Spedizione fu etichettata, fin dall’inizio, con il motto Italia e Vittorio Emanuele. E non certo per lasciare contento il Re Sabaudo, beneficiario del tutto, ma per dichiarare esplicitamente l’obbedienza al disegno inglese, senza lasciare spazio ad equivoci o ad imprevisti. Va considerato, infatti, che Garibaldi, nello stesso momento in cui partiva la Spedizione, aveva già inviato il seguente messaggio, probabilmente costruito dalla diplomazia anglo-piemontese, al Re di Sardegna (Piemonte), futuro Re d’Italia, Vittorio Emanuele II.

“Sire! Il grido di aiuto che parte dalla Sicilia ha toccato il mio cuore e quello di parecchie centinaia di miei antichi soldati. Io non ho consigliata l’insurrezione dei miei fratelli di Sicilia, ma dacché essi si son levati in nome dell’unità d’Italia rappresentata in nome di V. M., contro la più vergognosa tirannia dei nostri tempi, io non ho esitato a farmi capo della spedizione. So che l’impresa in cui mi metto è pericolosa; ma io confido in Dio e nel coraggio e nella devozione dei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: ‘Viva l’Italia, Viva Vittorio Emanuele suo primo e più prode soldato!’ Ove noi avessimo a soccombere, io spero che l’Italia e l’Europa libera non dimenticheranno che quest’impresa è stata ispirata dal più generoso sentimento di patriottismo. Se vinceremo io avrò il vanto di adornare la Corona di V. M. d’un nuovo e forse più splendido gioiello, a sola condizione però che Ella non permetterà che i suoi consiglieri lo trasmettano agli stranieri, come hanno fatto della mia città natale. Non ho comunicato il mio progetto a V. M. perché temevo che la grande devozione che io sento per Lei, mi avesse persuaso ad abbandonarlo. G. Garibaldi”.

Certamente fu messa in moto la consueta manfrina con la quale, offendendo l’intelligenza dei contemporanei e dei posteri, si volle far credere che Vittorio Emanuele II ed il Governo Cavour fossero, poveretti, all’oscuro di tutto. Se fosse stato vero, sarebbero stati gli unici di quel regno.

E anche questa fu una finezza britannica, recitata male in italiano. Ma di fatto millantata ed opportunamente strumentalizzata.

Rimane comunque evidente la caratterizzazione in senso unitario e monarchico della spedizione, così come pretendeva il Gabinetto Palmerston.
Anche la notizia (che venne ripetuta ad ogni piè sospinto e che avrebbe fatto indignare, per la sua falsità, financo due Garibaldini come il Bandi ed il Nievo) secondo la quale i Siciliani sarebbero stati in piena rivolta (perché impazienti di ottenere l’Unità d’Italia con il suo Re Vittorio Emanuele), rientrava nella particolare attenzione che l’Inghilterra, come sempre, dedicava agli umori dell’opinione pubblica, non solo di casa propria.

Non mancò, infine – e questa, sì, tipicamente italiana – quella dichiarazione, apparentemente ruffianesca, già sopra riportata, con la quale l’Eroe Nizzardo dichiarava di volere adornare di un nuovo e splendido
gioiello la corona del Re Galantuomo…

Di fatto Garibaldi riproponeva la centralità del suo ruolo personale
nell’operazione Conquista del Sud. Non si contentava infatti della parte di mosca cocchiera tra mosche cocchiere. Era infatti lui, Peppino Garibaldi, che avrebbe donato al Re Sabaudo l’ex Regno delle Due Sicilie e che voleva essere il protagonista principale dell’impresa in corso.

Il Governo Britannico e l’opinione pubblica internazionale – Ribadiamo che gli Inglesi avevano preparato lungamente il terreno. Senza questa preparazione la Spedizione non avrebbe avuto la benché minima speranza di successo.

Si pensi alla corruzione degli alti gradi dell’Esercito e della Marina del Regno delle Due Sicilie. Si pensi ai contatti con la mafia, la ’ndrangheta, la camorra. Si pensi al lavorìo, più raffinato, della Massoneria. Si pensi alle truppe mercenarie che alla data del 5 maggio 1860 (ed anche da prima) erano state nella stragrande maggioranza finanziate, addestrate e mobilitate in varie località dell’Europa e probabilmente dell’Africa.

Tutte cose che non si possono preparare dall’oggi al domani. E non parliamo della messa in riga dei repubblicani, i quali non sono certamente quella decina di sprovveduti della bassa forza, che avrebbero protestato nel momento iniziale della spedizione. Ci riferiamo ai repubblicani illustri, che erano stati già ospitati – e forse foraggiati – per anni ed anni, in Inghilterra.
E che ora non potevano dire di no.

Non parliamo neppure dei giornali, dei finanziamenti, delle congiure, delle sommosse e delle rivolte, incoraggiate tramite servizi segreti e persone di fiducia. Rivolte spesso inconsistenti, ma sempre utili per la propaganda.
Non solo: proprio in questo momento delicato davano preziosi frutti le campagne di stampa e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro quelle belve dei Borbone, spergiuri, tiranni, vampiri ed assassini.

Campagne propagandistiche preparate nel tempo dagli Inglesi. Il Governo di Londra peraltro continuava a fare pubblicare giornali e libri che esaltavano i regnanti di Casa Savoia come angioletti benefattori. Gli Inglesi mentivano nell’uno e nell’altro caso. Dobbiamo peraltro dire che, se qualche grossa accusa di spergiuro (nei confronti della Sicilia, soprattutto, e della sua Costituzione) si poteva rivolgere ai Borbone, senza dubbio maggiori erano le accuse che si sarebbero dovute rivolgere ai Savoia, già dal primo momento dell’operazione Conquista della Sicilia.

Ma queste cose l’opinione pubblica internazionale non aveva modo di conoscerle, se non approssimativamente. Vinceva la disinformazione accuratamente pilotata dal Governo di Londra per coinvolgere l’opinione pubblica internazionale a favore di una conquista militare che mirava ad occupare, a conquistare, a distruggere, a colonizzare, a depredare e a denazionalizzare il Regno delle Due Sicilie ed i Popoli del Sud. Quello Siciliano soprattutto anche per la centralità geografica nel Mediterraneo della stessa Sicilia.

Il ‘padre della Patria siciliana’, Ruggero Settimo, dov’era? – Ben pochi pensano o sanno – a proposito di disinformazione – che Ruggero Settimo, il leader carismatico dell’Indipendentismo Siciliano, era formalmente un rifugiato politico nell’isola di Malta, sotto tutela della Gran Bretagna. In verità era stato letteralmente congelato per non disturbare i lavori in corso.

Eppure, il 26 settembre 1849, poco dopo la conclusione della tragica, sfortunata, ma gloriosa rivoluzione indipendentistica e della breve ma significativa vita dello Stato Siciliano (11 gennaio 1848 – 15 maggio 1849), Ruggero Settimo era stato accolto, a La Valletta, con gli onori dovuti ad un Capo di Stato. E come tale fu trattato. Fatto, questo, che è ben conosciuto da coloro che hanno studiato le vicende siciliane del biennio 1848-1849.

Ma nel 1860 Ruggero Settimo era diventato a poco a poco un prigioniero – seppure in gabbia dorata – del Governo Inglese. Il quale ormai non voleva sentire più parlare di indipendenza siciliana ed era amico soltanto di coloro che erano disposti a lavorare per l’annessione della Sicilia al futuro Regno d’Italia.

Kermesse britannica? Sì, ma per scoraggiare gli altri Stati – Certamente, dopo lo Sbarco dei Mille – uno sbarco impasticciato dal piroscafo garibaldino ‘Lombardo’, che si sarebbe addirittura incagliato da solo nel basso fondale – gli Inglesi capirono che dovevano stare con gli occhi bene aperti. Dovevano infatti condurre manu manuzza, come si dice in Sicilia, tutta l’operazione conquista del Sud. Non bastava avere preparato le condizioni necessarie, bisognava intervenire più direttamente. Non solo nello Sbarco e nel dopo Sbarco, ma in tutta l’operazione Unità d’Italia.

Sarebbe stato, quindi, dominante il sistema delle interferenze britanniche, che erano una garanzia di costante ed autorevole protezione. Ad ogni costo e a tempo pieno. Il tutto mentre le ‘mosche cocchiere’ si accingevano a diventare Padri della Patria italiana.

Ciò, senza nulla togliere ai veri idealisti unitari, che pure vi furono (ma non nella misura e nella qualità dei colleghi dell’Italia centro-settentrionale). Pensiamo ad esempio ai fratelli Cairoli, dei quali, nelle vicende risorgimentali, ne morirono quattro su cinque. Tutti eroi (11). E senza pericolo di confonderli con le ‘mosche cocchiere’ che, spesso, non ebbero neppure l’onestà di svolgere con la dovuta professionalità e con correttezza il loro ruolo. Queste, peraltro, avrebbero ricevuto molto di più, di quello che avrebbero meritato, in termini morali e materiali.

Come distruggere le aspettative indipendentiste dei Siciliani – I fatti successivi dimostreranno ulteriormente la esattezza della tesi, secondo la quale, dall’inizio alla fine, l’operazione Unità d’Italia del 1860 era il risultato di un lavoro avviato da diversi decenni dagli Inglesi. E l’operazione, proprio per la esigenza di creare un unico grande Stato Italiano, escludeva a priori qualsiasi altro progetto che rispettasse le esigenze della Nazione Siciliana, del Popolo Siciliano. Nessuna speranza di sopravvivenza o di rinascita del Regno di Sicilia (o del Regno di Napoli e, neppure, del Regno delle Due Sicilie). Insomma: Regnum utriusque Siciliae delendum est.

L’Inghilterra impone le proprie scelte in campo internazionale –
Poniamo un altro interrogativo:

“A parte il Papa Pio IX, chi realmente si opponeva al disegno Inglese?”.

Di fatto nessuno, soprattutto dal punto di vista militare. Neppure i Paesi che avevano interessi contrastanti con quelli dell’Impero della Regina Vittoria. Questi Stati non avevano in quel momento le forze, i mezzi ed il coraggio sufficienti a neutralizzare le azioni del Leone Britannico.

L’opposizione del Papa, inoltre, sul piano militare era inconsistente. Pio IX, infatti, senza l’appoggio di guarnigioni straniere, non poteva neppure salvaguardare i confini del proprio Stato, che infatti erano stati già nel 1860, ed anche prima, pesantemente violati ed anche spostati, ad ogni piè sospinto, soprattutto per opera del Governo Sabaudo di Torino.

Sostanzialmente contrari all’egemonia ed all’espansionismo britannico erano soprattutto, oltre alla Francia (della quale il Rosada ha parlato ampiamente), Prussia, Austria e Russia. Paesi verso i quali il Regno delle Due Sicilie, a prescindere dalle simpatie politiche e dalle affinità ideologico-culturali dei rispettivi governanti, aveva in corso una serie di trattati commerciali e di scambi destinati a svilupparsi ulteriormente. Ovviamente se lasciati indisturbati. Fossero rimasti o no i Borbone sul trono di Napoli.

All’Inghilterra tutto ciò dava fastidio, perché vedeva minacciati i propri monopoli e sapeva bene che, dietro i commerci, sarebbe potuta crescere l’influenza politica. Si pensi al fatto che in Sicilia erano presenti alcuni Consolati Russi, tanti erano i rapporti commerciali e gli scambi di ogni tipo.

Purtroppo i Paesi – contro i quali pure si muoveva pesantemente la strategia dell’Inghilterra – avevano preferito la linea morbida, pensando a torto di imbuonire la Potenza Britannica non contrariandola troppo apertamente. Ed avevano anche agito ciascuno per conto proprio, senza neppure tentare una strategia comune. Il terrore di subire ritorsioni da parte del Leone Britannico aveva bloccato e continuava a ‘bloccare’ tutti.

Ammettiamo, quindi, senza timore di smentita, che nell’Europa e nel mondo, nel 1860, solo l’Inghilterra era nelle condizioni di dettare legge e di ridisegnare confini ed equilibri internazionali. E per il Regno d’Italia aveva già disegnato, appunto, uno Stato monolitico ed accentratore ed un territorio che andasse dalle Alpi al cuore del Mediterraneo, isole comprese. Povera Sicilia!

Torino. Numerosi «esuli Siciliani» vengono strumentalizzati e coinvolti nella strategia dell’occupazione della Sicilia, abbandonando spesso gli ideali che avevano animato la lotta per l’indipendenza della Sicilia nel biennio 1848-1849.

Una volta che tutto il Regno delle Due Sicilie fosse stato sacrificato a favore del costituendo Regno d’Italia ed una volta che quest’ultimo fosse rimasto legato all’Inghilterra da vincoli di gratitudine, di amicizia e, soprattutto, di interessi (e ne fosse diventato quasi uno stato vassallo), che motivazioni sarebbero più esistite per il Governo Britannico per agevolare
– o solamente per non ostacolare – l’indipendenza della Sicilia?

Risposta: ‘Nessuna!’.

Piuttosto esisteva tutto l’interesse per fare l’esatto contrario. E cioè: impedirne l’indipendenza. Ed accorpare la Sicilia allo Stivale. Da questa situazione sarebbe partita anche l’operazione di travasare nelle manovre per realizzare l’Unità d’Italia gli esuli Siciliani, che, a seguito della restaurazione borbonica del 1849, si erano trasferiti nel Regno Sabaudo. Qui, tutti o quasi, quegli esuli avevano ricevuto onori, incarichi prestigiosi e prebende di vario tipo. Era avvenuto così, che buona parte degli esuli Siciliani fosse diventata unitaria e filo-sabauda. Una pagina nera per l’Indipendentismo Siciliano, che però non coinvolse proprio tutti gli esuli. Alcuni di questi rifiutarono, infatti, incarichi e prebende e, seppure con prudenza, continuarono a difendere le ragioni e i diritti della Nazione Siciliana. Senza fortuna.

L’Imperatore Napoleone III, da parte sua, capì troppo tardi quanto stava accadendo in Italia e che il progetto inglese mirava, sì, a distruggere la dinastia borbonica e le sue ramificazioni, ma mirava, nel tempo, a distruggere anche la dinastia dei Bonaparte ed il rinato nazionalismo francese.

Dice Giorgio Dell’Arti: “I francesi temevano nuovi ingrandimenti territoriali del Piemonte e la formazione di un Regno d’Italia talmente forte che sarebbe stato impossibile influenzarlo. Tentarono di convincere gli Inglesi a fare causa comune per evitare annessioni. Ma Palmerston voleva un Regno d’Italia forte a quel modo» (12) che danneggiasse con la sua esistenza anche la Francia… (n.d.A.).

Napoleone III, come abbiamo visto, era un grande ammiratore dell’operato del Governo di Londra, ma non aveva ancora ben capito che l’Inghilterra lo detestava. Né aveva mai nutrito il sospetto che quando e se (dopo meno di dieci anni da quei fatti) il suo Impero fosse stato mandato a gambe all’aria dalla Prussia, gli Inglesi avrebbero provveduto a fare altrettanto, se non peggio, proprio con il discendente di Bonaparte. Ed in modo molto più scientifico.

L’ingenuità di Napoleone III fu tale e tanta che la collaborazione con la Gran Bretagna, seppure con qualche riserva mentale, sarebbe continuata a lungo e si sarebbe estesa anche al Medio e lontano Oriente. A tutto vantaggio della furba Albione, ovviamente.

E le navi straniere nel porto di Palermo… stanno a guardare! – 
Subito dopo lo sbarco di Marsala, Turchia, Francia, Austria, Piemonte, Portogallo, Spagna, Stati Uniti d’America, ed altri Stati avrebbero mandato navi militari in Sicilia, soprattutto nei porti di Palermo e di Messina. Il pretesto ufficiale era che queste dovevano vigilare sulla sicurezza personale e sui beni dei rispettivi cittadini, che nessuno minacciava. Lasciavano, cioè, libera l’Inghilterra di fare ciò che voleva.

E a Palermo si sarebbe recato anche il Contrammiraglio britannico
George Rodney Mundy a bordo dell’Ammiraglia Hannibal, scortato da
altre navi da guerra. Il Mundy era in assoluto l’Ammiraglio più importante e più rispettato fra i tanti comandanti di navi presenti. E, fra l’altro, continuava a giocare in casa, considerato che la Mediterranean Fleet di S.M. Britannica – fra le flotte che stazionavano in quel momento nel Mediterraneo – era la più potente. E la più presente nelle acque siciliane.

Fine della settima puntata/continua

(7) In G. R. Mundy, op. cit., introd. a cura di A. Rosada, pagg. 14 e 15.

(8) In G. R. Mundy, op. cit., pag. 13.

(9) In G. R. Mundy, op. cit., pagg. 14-15.

(10) C. Cantù, in Vittorio Casentino di Rondè, op. cit., pag. 183.

(11) I fratelli Cairoli erano cinque: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni. Tutti parte- ciparono alle lotte per l’unità d’Italia. Il più grande, Benedetto (nato a Pavia nel 1825), sarebbe diventato Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1878. Fu un ottimo combattente. Partecipò all’impresa dei Mille e fu ferito a Palermo. Come politico fu mediocre. Sopravvisse ai quattro fratelli morti, molto giovani, o in combattimento o a seguito di ferite o di malattie provocate dalla guerra. Benedetto, nel 1889, morì di morte naturale, a Capodimonte. Ernesto (nato nel 1832) si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Morì in combattimento nel corso della seconda guerra d’indipendenza a Biumo Inferiore nel 1859, a soli ventisette anni. Luigi, nato nel 1838, era topografo, matematico ed ufficiale dell’esercito piemontese. Partecipò all’impresa garibaldina con il Generale Coseni (seconda spedizione). Morì di tifo a Cosenza, stremato dalle fatiche del- la guerra di occupazione del Sud, nel 1860. Aveva ventotto anni. Enrico, nato nel 1840, studen- te in medicina, seguì i fratelli fra i Cacciatori delle Alpi e fra i Mille. Anch’egli fu ferito a Pa- lermo nel 1860. Partecipò a tutte le campagne di Garibaldi. Morì nel fallito tentativo di conqui- stare Roma, nel 1867, nello scontro di Villa Glori. Aveva appena ventisette anni. Giovanni fu il più giovane dei fratelli Cairoli, essendo nato nel 1842. Morì a seguito delle ferite riportate nello scontro di Villa Glori, dove aveva combattuto al fianco del fratello Enrico. Abbiamo ritenuto doveroso ricordare i fratelli Cairoli per rendere omaggio alla memoria di eroici combattenti im- molatisi per un ideale purissimo. Prescindiamo ovviamente dalla considerazione del fatto che non sia stato né sia riservato analogo omaggio ai martiri, ai coraggiosi, agli idealisti, agli eroi caduti dall’altra parte della barricata – nel 1860, nel 1861 e nel primo decennio della conquista piemontese, – per difendere la libertà della Sicilia e del Meridione d’Italia.

(12) Giorgio Dell’Arti, Vita di Cavour, A. Mondadori, Milano 1983, pag. 459.

 

 

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