Ecco come Cavour programmò la conquista e la distruzione dell’economia del Sud

15 settembre 2018

L’articolo è di qualche anno fa, ma è ancora attualissimo. Lo ha scritto Nicola Zitara, un grande meridionalista venuto a mancare nel 2010. In questa brillante ricostruzione l’autore racconta la resistenza contadina nel Napoletano, all’indomani della conquista del Sud ad opera del Piemonte di Cavour. Che spedì nel Napoletano 80 mila uomini modernamente armati, mobilitando anche 40 uomini delle guardia urbana agli ordini della Camorra. “La ritorsione sabauda – scrive Zitara – anticipa Hitler e il genocidio degli ebrei”

di Nicola Zitara

C’è l’età della pietra, l’età preistorica, l’età storica e parecchie altre, sia precedenti sia seguenti. Quella attuale è l’età dei consumi, la cui versione meridionale è bene definirla l’età dello scrocco. Qualche giorno fa, un quotidiano regionale ci ha offerto un’inaspettata notizia: un illustre storico della letteratura e una nota e affermata casa editrice roman-reggina, hanno ripubblicato il volume di Cesare Lombroso intitolato ‘In Calabria’. Di tali prestigiosi innovatori culturali non do i nomi. Non lo faccio per prudenza, ma perché mi sento come Caio Giulio Cesare che, ancora tribuno militare, si prosternò piangente ai piedi di una marmorea statua di Pompeo, di cui lui, Cesare, che ancora non aveva compiuto nessuna impresa storica, invidiava le glorie militari.

Credo che un identico sentimento di pochezza ha avvertito il direttore del giornale. Il quale ha dato spazio alla notizia non certamente per fornire ai lettori un’informazione di quelle destinate a lasciare il tempo che trovano, ma per il grandissimo rispetto di cui godevano (e godono) entrambi i gloriosi facitori dell’impresa editoriale. Ci risiamo! Il Mattino e La Gazzetta non si esimono dal fare favori del genere, ma hanno almeno la prudenza di incasellare la notizia nella cronaca locale.

Quanto all’operazione editoriale, non occorre scomodare la zingara per sapere che hanno un’inequivocabile finalità di scrocco. La Regione dà qualche soldo. L’editore stampa 500 copie. Di queste ne dà 200 all’autore (o al curatore) e 300 le distribuisce, dieci per parte, in dieci Comuni – quelli in cui ha un amico sindaco. Quanto al prezzo che il Comune paga, è programmaticamente elevato. Infatti la pubblicazione non ha altro scopo che un gaudente incontro con il lassismo comunale. Quanto, poi, al sindaco, se proprio è un uomo di cultura, regala le copie comprate ai suoi concittadini analfabeti. Se nessuno leggerà il libro, lui non farà brutte figure. Se non è un uomo di cultura, le lascia sul tavolo del segretario comunale perché le distribuisca agli impiegati.

Non ho mai letto – anzi mai voluto leggere – il libro in questione, come nessuno leggerebbe un libro in cui sa in partenza che ci troverà scritto che il padre era un cornuto. Perché di questo si tratta, più o meno. L’illustre imbecille a nome Cesare Lombroso fu il fondatore di una scienza che non esiste né come scienza, né come opinione.

Per non essere linciato quale denigratore dei generosi juventini non parlo in prima persona, ma riporto quel che ha stampato nero su bianco un’illustrissima e colendissina enciclopedia, quella dell’augusto Corriere della Sera, attivo in Milano alla prestigiosa via Solferino, come dire la Bibbia degli italiani:

“Secondo Lombroso […] la tendenza alla criminalità è conseguenza di una degenerazione dell’organismo, cioè di un’inferiorità biologica. Una tale teoria […] non trova più credito”.

Ma lo trovò un tempo. Siamo nei primi decenni della disastrosa unità italiana. La prima mossa di Cavour riguarda la chiusura delle industrie borboniche. Se le lasciasse in vita, l’epicentro della nuova Italia sarebbe Napoli e non certamente Genova, Torino e Firenze.

Questo dato è di norma taciuto o annacquato. Ma taciuto è anche un dato minore. Le bellure dell’Italia unita promossero la lotta operaia e il socialismo a Napoli. (Non è quindi esatta la proclamazione dei socialisti milanesi e dei sindacalisti romagnoli che lo fanno nascere in una bettola di Genova).

Napoli è un pericolo per la composta borghesia toscopadana, che prospera rubando il pane alle risorgimentate popolazioni d’Italia. A Napoli opera il gruppo degli amici e consorti di Carlo Pisacane. E’ napoletano Carlo Cafiero, amico di Marx e unico membro italiano della Seconda Internazionale (quella di Marx). Cafiero è l’autore di un riassunto de Il Capitale che gli Editori Riuniti (editori comunisti) hanno ristampato per cinquant’anni di fila.

Anche Bakunin si piazza a Napoli e vi rimane parecchi anni. Le campagne meridionali sono insorte contro i piemontesi inalberando la bandiera legittimista, che non era soltanto il simbolo della dinastia e della fede, ma anche quello di un governo attento alla questione sociale.

La resistenza contadina obbliga il nuovo Stato a spedire nel Napoletano 80 mila uomini modernamente armati e a mobilitare 40 uomini delle guardia urbana (ovvero camorristi). Lo scontro è di una violenza tipo Iraq. La ritorsione sabauda anticipa Hitler e il genocidio degli ebrei.

A questo punto l’unità sta per crollare, ma la Toscopadana, che non vuole perdere la colonia appena conquistata, rinfocola le litanie britanniche sui Borbone di Napoli. Il leit motiv era vecchio. Possiamo datarne la nascita con una certa approssimazione al 1734. Gli Absburgo e i Borbone si rompono le corna per il predominio in Italia. Carlo di Borbone, figlio di secondo letto del re di Spagna e di Eleonora Farnese, duchessa di Parma, riceve la corona delle Due Sicilie, che diventano uno stato indipendente (dalla Spagna e dall’Austria).

Ma deve difendere il trono insidiato dall’esercito austriaco d’Italia. Lo batte a Bitonto in una celebre battaglia (ovviamente non ricordata dai patrii libri di storia) e subito proclama di voler marciare su Milano per realizzare l’unità d’Italia.

Non l’avesse mai detto. Gli inglesi si offesero e inviarono una flotta, che gettata l’ancora a poche centinaia di metri dalla battagia, proprio sotto la reggia borbonica, minacciò la distruzione della città e del focoso re, qualora questi avesse osato superare il Rubicone all’incontrario.

Esattamente cento anni dopo, la stessa cosa capitò a Ferdinando II, pronipote di Carlo III. Il riformismo napoletano, che aveva avviato proprio con Carlo III una splendida operazione di rinnovamento sociale e, per un certo aspetto, di solidarismo proletario, si era esaurito con l’invasione francese. (Questo mese l’Associazione culturale Due Sicilie celebrerà con una manifestazione pubblica lo “Statuto di San Leucio”, che fu propriamente una comunità socialista).

Ferdinando II, salito al trono nel 1831, a vent’anni, riprende l’opera del rinnovamento napoletano. La sua non è più un’azione in senso sociale, come quella del nonno e dell’avo, ma un’azione politica in senso capitalistico, industrialista e mercantile. L’idea moderna è di avviare la sovrappolazione delle campagne verso l’industria. Nasce con lui l’industria di Stato, un’esperienza feconda che si ripeterà solo dopo cento anni in Italia con l’Iri.

Fra le cose che Ferdinando vorrebbe fare c’è l’emancipazione dello zolfo siciliano – al tempo la più promettente risorsa del Regno – dallo sfruttamento degli inglesi, che se n’erano impadroniti nei giorni amari dell’occupazione francese di Napoli. Anche questa volta c’è la sceneggiata di un paio di flotte inglesi nel Golfo di Napoli. Ferdinado II è costretto a cedere.

Dal canto loro, gli inglesi decidono che i Borbone se ne debbono andare in pensione. Ferdinado II, da monarca a cui la massoneria italiana avrebbe voluto affidare il compito d’unificare l’Italia, diventa, su istigazione inglese, il mostro che i massoni debbono decapitare (e infatti si dice che lo abbiano avvelenato). Lord Gladstone proclama i Borbone la negazione di Dio. Dieci anni dopo confesserà d’essersi inventato tutto, ma è già in auge Cavour come unificatore militare d’Italia.

E logicamente Cavour non è uomo da farsi sfuggire una buona occasione propagandistica a favore del suo progetto, il quale prevede l’annientamento di Napoli e il saccheggio dell’oro napoletano, con cui pagare i debiti contratti dal Piemonte durante il cosiddetto “decennio di preparazione”.

La denigrazione dei napolitani e dei siciliani prosegue gagliardamente anche a l’unità fatta. E’ un alibi perfettamente funzionante affinché la Toscopadana venga assolta per la vile distruzione dell’economia meridionale e per la colonizzazione culturale dei meridionali; cosa che appare inevitabile se si vuole passare dall’egemonia delle baionette all’egemonia politica.

Se i meridionali erano atavicamente delle bestie, come affermò il piemontese Lombroso e come andavano affermando i prezzolati De Amicis e Fucini, nonché i generali a cui i briganti avevano dimostrato che non sapevano fare il loro mestiere, e i prefetti e i delegati piemontesi, offesi nell’intimo perché i coloni meridionali li consideravano stupidi e loquaci domatori di pulci, allora era giusto, sacrosanto saccheggiarli, come in effetti i toscopadani stavano allegramente facendo.

Il giornale di cui ho parlato riporta anche una frase tratta dal libro di Lombroso. La quale – sputa che indovini – descrive i nefasti del regime borbonico. L’unico commento possibile all’autolesionistica e pappagallesca ripetizione è che Lombroso dimenticava e sui editori e commentatori dimenticano la storia del Regno sabaudo sotto Carlo Alberto.

Questi sottoscrisse ben 44 condanne al capestro a carico di patrioti, contro una soltanto di Ferdinando II. I frammassoni, che battono la grancassa dell’unità in combutta con la mafia, non dovrebbero dimenticare inoltre che altre 150 condanne non poterono essere eseguite perché i condannati si erano rifugiati fuori del libero e tollerante Piemonte. Fra gli altri Garibaldi e Mazzini. Garibaldi fu graziato.

Non così Mazzini, a cui fu concesso sì di morire in Italia, ma sotto falso nome e rimanendo a domicilio coatto. Eppure fatta l’Italia una e indivisibile, Mazzini fu eletto deputato forse in cento collegi, ma il parlamento “costituzionale” della libera Italia, una e indivisibile, non convalidò mai la sua elezione.

Oggigiorno mentire, leccare, rubare, come pure sputare sui fratelli che l’Italia sabauda, fascista e resistenziale, ha condannato alla sudditanza culturale oltre che economica, è una virtù dei militanti meridionali dei gloriosi partiti nazionali e costituzionali. Sono costoro i capibanda dalla classe infame, la mafia dai colletti bianchi, gli ascari del regime. Lo Stato italiano sceglie questa genìa come suo alleato elettorale. Di essa non ci libereremo fin quando continueremo a stare sotto la Toscopadana. Guardate le facce di Bossi e di Castelli. Lì il futuro del Sud è già scritto a chiare lettere.

LA VITA E LE OPERE DI NICOLA

Foto tratta da stopeuro.news

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