Le nomine, nel nostro Paese, non sono mai state meritocratiche. Chi viene nominato ai vertici di enti e istituzioni pubbliche deve dare conto al potere in carica del suo operato. Per questo sono stucchevoli le polemiche dei governanti uscenti che rimproverano ai governanti che subentrano ciò che lo hanno fatto. Il ‘caso’ di Paolo Gentiloni
“Circondati di persone capaci, delega e non interferire”.
Nulla è più estraneo e lontano da questa “aurea regula” reganiana nel sistema di nomine imperante in Italia.
Il primo requisito che deve possedere il nominando è l’appartenenza. Bisogna che si faccia parte della stessa parte politica cui compete la nomina. Il titolo di appartenenza è ininfluente. Ideologia, militanza antica, passaggio di campo, compravendita, tutto fa brodo, purché il nominando faccia atto di ubbidienza, ovvero di riconoscimento della sua dipendenza politica e funzionale da chi lo ha nominato.
Il secondo requisito è la disponibilità, ovvero l’attitudine ad eseguire le disposizioni che il nominante vorrà dare al nominando nella gestione dell’istituzione pubblica o privata che si è chiamati ad amministrare. Questa è una regola ferrea, implacabile e immutabile. Vale per tutte le nomine, piccole, medie e grandi. Se però, oltre che di parte e disponibili, i nominandi sono anche capaci, pazienza. Purché non esagerino.
La politica italiana conosce ed applica queste regole da sempre, eppure, curiosamente, ogni volta che il governo di turno le applica, ovviamente con lo stesso rigore, la stessa lungimiranza e usando gli stessi termini a difesa che hanno usato il governo che lo ha preceduto, l’opposizione grida allo scandalo. C’è pure persino chi, assurdamente, si scandalizza se i nominati non appartengono alla propria parte politica, come nel caso de “Il Manifesto”.
La regola è tanto inveterata che chi la applica la ritiene legittima fino al paradosso. E’ il caso dell’ex Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che dopo le sue dimissioni, rimasto in carica “per il disbrigo degli affari correnti”, ha rinnovato il consiglio di amministrazione di Trenitalia, atto che “affare corrente” proprio non è. Ebbene, quando le sue nomine sono state annullate, ha strillato come un’aquila contro il malcostume governativo.
Vi racconto un episodio che mi vide protagonista mio malgrado. Era stato appena costituito un ente con competenze importanti in un settore vitale per la Sicilia. Mi fu chiesta dal Presidente della Regione dell’epoca la disponibilità a avviarne il funzionamento. Ero l’unico, mi disse, in grado di farlo. Troppo buono. Ad una condizione, però: che rimanessi in servizio, cumulando due cariche. Perché?
Non ci arrivate? Ve lo dico io. Perché, se fossi stato nominato a quella carica rimanendo in amministrazione, la carica sarebbe stata di natura tecnica. Se invece fossi stato nominato da pensionato, la carica sarebbe stata politica. E mi mancava sicuramente il requisito dell’appartenenza, mentre diventava irrilevante quello della capacità.
Dove siano finite l’Italia e la Sicilia di oggi è sotto gli di tutti.
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