E siamo arrivati ad uno dei capitoli più dolorosi della storia della conquista delle regioni meridionali da parte dei Sabaudi: come i banchieri dell’epoca rovinarono la nostra economia per salvare quella piemontese. Creando un gap Nord- Sud ancora oggi ben visibile…
(Sotto, in allegato, le puntate precedenti)
Il colpo di grazia all’economia del Sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d’Europa), all’irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull’esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all”armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d’Europa.
Scrive ancora lo storico Zitara: “La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all’intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l’uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un’autosconfessione. Quando, alle fine, quelle “innovazioni”, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo”.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L’agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all’esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali”.
Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l’assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d’annessione, sia i costi divenuti astronomici dell’ammodernamento del settentrione.
Il governo di Torino adottò nei confronti dell’ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo “colonialista” tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: “Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala”.
La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell’Italia unita a un crack finanziario.
Le grandi società d’affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d’oro.
Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al “corso forzoso” cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un’inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.
Ci vorranno molti decenni perché l’Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.
L’odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell’ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.
Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, – iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.
Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all’estero.
Nonostante gli interventi negli anni ’50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), ’60 e ’70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l’aiuto economico dell’Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d’Italia è ancora notevole.
La popolazione dell’ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del “brigantaggio”, stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d’ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell”800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.
6 Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell’Italia industriale.
Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un’analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.
La guerra fra il nord ed il sud d’Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai “briganti”, ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud “geneticamente” arretrato, produce un’ulteriore frattura tra due “etnie” che non si sono amate mai.
Il dibattito ancora aperto e vivace sull’ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il “rimescolamento” dovuto all’emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.
Oggi l’Unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l’unità vi ha apportato.
L’enorme numero di morti che costò l’annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell’ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un’Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi noi reclamiamo.
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Registro con rammarico che dopo Ferdinando III anche Franco Busalacchi ha cancellato la Sicilia, proponendo una “ricostruzione storica” che riguarda – lo ripete ben due volte – “l’ex Regno di Napoli”. Aggiungo pochissime note.
1. Il debito pubblico del Regno delle Due Sicilie nel 1860 non era “irrilevante”: era il secondo per ordine di grandezza dopo quello del Regno di Sardegna e superava i 500 milioni di lire correnti, circa il 25% del totale.
2. La crescita improvvisa e cospicua – perché “smodata e incontrollabile”? – dell’agricoltura meridionale dopo il 1860 dimostra che la politica doganale borbonica l’aveva gravemente penalizzata. Qualche esempio. In Sicilia l’area coltivata a vite crebbe in trent'anni da 120.000 a 300.000 ettari, e simili dimensioni raggiunse la viticoltura pugliese. L’agrumicoltura in Sicilia rese davvero la Conca d’oro: intorno al 1875 un limoneto rendeva intorno alle 2500 lire annue mentre le marcite nel milanese toccavano appena le 600, superate dall'area ortofrutticola napoletana che arrivava a 900 lire annue (cfr. S, Lupo, La questione, Donzelli, Roma 2015, pp. 10-12). Il valore aggiunto per addetto dell'agricoltura in Sicilia nel 1911 superava del 40% la media nazionale.
3. Non val neppure la pena di intervenire sulla laudativa “revisione” della politica fascista, che fu funzionale ai profitti di settori dominati dal grande capitale quali lo zuccheriero o l’elettrico ma semplicemente rovinosa per l’agricoltura meridionale.
Potrei continuare a lungo: ma il mio scopo non era quello di riscrivere questo “contributo” bensì quello di mettere in guardia chi legge dal fidarsi di “revisioni” ideologiche, estranee alla ricerca storiografica.
Spiace, questa volta, non concordare con una delle conclusioni dell'articolo: "Oggi l’Unità dello stato, ..., è certamente un valore da salvaguardare,...". Alla luce di quanto avvenne e, sopratutto, alla luce di quanto avviene ancora oggi quotidianamente a livello di discriminazioni fra Nord e Sud, come può essere quella unità un valore? Avrebbe potuto esserlo, forse, se lo stato italiano si fosse comportato lealmente. Ma come poteva, e come può, visto il modo in cui è nato e il modo in cui ancora oggi si comporta? Quanti anni dovremmo ancora aspettare (inutilmente) perchè la colonizzazione cessi? Sulle reali condizioni economiche e finanziarie del Regno delle Due Sicilie, al tempo dell'unità, rimando al seguente link: http://www.ilportaledelsud.org/benessere_due_sicilie.htm
P.S.: Con legge n. 174 del 4 agosto 1861, lo Stato Italiano riconobbe il suo debito complessivo in circa 2375 milioni. Esso risultò così ripartito:
- Stati sardi: 1292 milioni
- Napoli: 522 milioni
- Sicilia: 209 milioni
- Toscana: 139 milioni
- Lombardia: 152 milioni
- Romagna: 19 milioni
- Modena: 18 milioni
- Parma: 12 milioni
- Umbria: 7 milioni
- Marche: 5 milioni
Come si vede, il debito pubblico del Regno delle Due Sicilie era di gran lunga inferiore a quello del Regno Sardo, il quale era tale a seguito degli enormi indebitamenti di quest'ultimo per far fronte alle spese per le continue guerre. E questo nonostante il Regno delle Due Sicilie avesse una estensione di quasi 112.000 kmq. ed una popolazione di quasi 9 milioni di abitanti, contro il Regno di Sardegna con estensione pari a poco meno di 74.000 kmq. ed una popolazione di circa 4 milioni e 900 mila unità; cioè poco più che la metà di quella duosiciliana.
Inoltre, i Titoli di Stato del Regno delle Due Sicilie, prima dell'unità, alla borsa di Parigi erano quotati al 120% del loro valore.
La questione meridionale è solamente una pura invenzione dellacanaglia padana. Tutti sempre a scervellarci per cercare una soluzione a questa questione meridionale senza mai trovarla. La soluzione alla questione meridionale non esiste. La soluzione alla questione meridionale non esiste perché la questione meridionale non esiste. E come si fa a trovare la soluzione a un problema che non esiste? Per noi Siciliani e meridionali non esiste una questione meridionale. Per noi Siciliani e meridionali invece esiste una "questione settentrionale", e tale problema è sorto nel lontano 1860 con l'invasione iniziata dai mille fetentoni garibaldesi. Quando si troverà la soluzione alla questione settentrionale, in Sicilia e al sud si inizierà a stare molto ma molto meglio. E la soluzione della questione settentrionale inizia con la disgregazione di quella barzelletta di stato chiamato Itaglia, e con il ritorno agli stati pre-unitari prima del congresso di Vienna del 1815. Si badi bene che io non auspico il ritorno di quell'obbrobbrio storico chiamato Regno delle Due Sicilie, ma l'istituzione di una Repubblica Siciliana e di una Repubblica Napoletana.
SICILIA LIBERA E INDIPENDENTE!
ANTUDO!