Fu Viceré di Sicilia dal 1781 al 1786. A lui si deve l’abolizione del Santo Uffizio, vera e propria macchina dell’orrore al servizio dell’oscurantismo. Provò a portare avanti, senza riuscirci, altre riforme. Influenzato dalle frequentazioni illuministiche francesi, fu un “osservatore equanime niente affatto assolutorio di mali siciliani e distante dai locali ceti dirigenti”
Oggi ricorre l’anniversario della morte di Domenico Caracciolo, Viceré del Regno di Sicilia dal 1781 al 1786.
Nacque in Spagna e fu educato a Napoli. Si avviò alla carriera in magistratura, ma l’insofferenza di quell’ambiente, peraltro ricambiata, lo indusse a uscire dagli angusti orizzonti che gli si prospettavano per intraprendere la carriera diplomatica.
Negli anni 1752-1753, durante il regno di Carlo di Borbone, ebbe incarichi temporanei, dopo i quali svolse stabilmente, e per decenni, la funzione di rappresentanza diplomatica del Regno di Napoli in varie capitali d’Europa: fu inviato straordinario a Torino e poi a Londra dal 1764 al 1771.
Dopo l’Inghilterra, Caracciolo fu in Francia, dal 1771 al 1781, per un incarico diplomatico grazie al quale entrò in contatto con gli ambienti più avanzati dell’Illuminismo francese: Necher, d’Olbach, Helvetius e d’Alembert si contesero la sua amicizia.
Dopo la parentesi diplomatica, Domenico Caracciolo ebbe incarichi politici di vertice: fu Viceré di Sicilia per un quinquennio, dal 1781 al 1786.
Caracciolo, influenzato dalle frequentazioni illuministiche parigine, mise in atto da Viceré una politica di aperture riformiste: si impegnò a risvegliare le energie e a favorire il rinnovamento del Regno, entrando in aperto conflitto, con qualche successo, contro i privilegi dell’aristocrazia e del clero. Ebbe però anche il sostegno di quella parte di questi stessi ceti maggiormente propensa ad appoggiare il suo programma moderatamente riformatore.
A lui si deve l’abolizione del Santo Ufficio, vera macchina dell’orrore al servizio dell’oscurantismo. Riuscì a stabilire nuove norme per l’amministrazione dei Comuni e della Giustizia nelle terre feudali. Per vari motivi, tra i quali il tremendo terremoto che devastò Messina nel 1783, dovette rinunciare a quella che considerava la riforma più importante: la realizzazione di un catasto in cui per la prima volta apparissero descritte e disegnate le proprietà con i loro confini, le colture e le rendite, base preliminare ed essenziale per una tassazione dei patrimoni feudali ed ecclesiastici. E fu una perdita enorme.
Un uomo notevole, dunque da non dimenticare, un innovatore. Il suo carattere e il suo pensiero si ricavano dalle “Lettere dalla Sicilia” un opuscoletto gradevole in cui si contengono le sue lettere da Palermo negli anni che lo videro Viceré.
Fu, osserva Carlo Ruta, un osservatore equanime niente affatto assolutorio di mali siciliani e distante dai locali ceti dirigenti.
Così scrisse nel dicembre del 2 marzo 1782 a Gaetano Filangeri:
“Crede Vostra Eccellenza che io faccia del bene in Sicilia? Mi onora troppo perché non ho che la semplice volontà di farlo e quasi indarno mi sforzo di adempiere al mio dovere”.
Ma la sintesi più compiuta del suo metodo di lavoro è contenuta nell’incipit della lettera al Marchese di Sambuca del 17 marzo 1783:
“Niuna cosa ci deve confortare meglio ad abbracciare qualche progetto ordinato a rimuovere abusi e disordini che germogliano in uno Stato e ne portano la rovina quanto il conoscere e il vedere coi propri occhi con quanta facilità sia stato altrove eseguito e l’utile che ne è ridondato”.
Morì il 16 luglio del 1789, due giorni dopo da che, grazie anche alle sue picconate, la Bastiglia e l’Ancien regime erano caduti.
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