Quello che ha capito veramente la natura truffaldina dell’impresa del Mille è stato Antonio Gramsci. Se Federico De Roberto, alla fine dell’800, nel romanzo ‘I Vicerè’, mette a nudo la disillusione e l’ipocrisia dell’unificazione italiana, l’intellettuale sardo – grande conoscitore della questione meridionale – vede nell’impresa dei Mille la totale assenza del popolo. Per lui il Sud viene conquistato dai Piemontesi (“conquista regia”) per fare gli interessi del Nord, sulla pelle delle genti del Sud
di Ignazio Coppola
Nel contesto di quelle che, troppo spesso, sono retoriche manifestazioni sul Risorgimento, tra celebrazioni, polemiche e trionfalismi sarebbe opportuno ricordare quel che del Risorgimento e dell’impresa dei Mille ne pensasse e scrisse un grande intellettuale di sinistra del secolo scorso come Antonio Gramsci, che certo non si può tacciare di derive separatiste, antiunitarie o filo borboniche.
Gramsci, nel suo autorevole e lucido saggio intitolato appunto Sul Risorgimento, definisce la spedizione dei Mille una “radunata rivoluzionaria” che fu resa solo possibile per il fatto che Garibaldi s’innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo e sterilizzò la flotta borbonica. Gramsci, in buona sostanza, nel suo autorevole saggio sul Risorgimento, non faceva altro che delegittimare la “gloriosa” spedizione garibaldina evidenziando che non fu altro che una grande mistificazione storica.
E fu con questa radunata rivoluzionaria, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva”, o meglio ancora “rivoluzione-restaurazione”, che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne perché nulla cambiasse. Una “rivoluzione-restaurazione” che fa dire allo scrittore e all’uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto marginale, anzi subalterno, così che il Risorgimento si caratterizzò come “conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al popolo una coscienza nazionale.
Di questa mancanza di coscienza nazionale, sulla stessa lunghezza d’onda di Gramsci, ce ne parla il giornalista, scrittore e saggista Paolo Mieli nel suo interessante saggio di qualche tempo fa: Storia e politica. Risorgimento, Fascismo e Comunismo, il quale, nel capitolo dedicato al Risorgimento, frutto di approfondite ricerche storiche (Ernesto Ragionieri, Gabriele Turi, Fulvio Camarrano, Giorgio Candeloro e altri) perviene alla analoga conclusione di Antonio Gramsci, ossia un Risorgimento realizzato da una “elite” in cui il popolo non fu per niente protagonista e proprio perché “elite”, riuscì a creare un’area di consenso popolare assai ristretta o quasi nulla.
“Dal 1861- sostiene Meli – dunque il popolo, anziché essere una riserva di consenso, costituì un problema per le ‘elite’ che fecero l’Italia, con conseguenze drammatiche nella definizione dei modi di fare e di intendere la politica”.
Paolo Mieli, in premessa, prende in esame l’arco di tempo che va dalla fine delle Settecento all’inizio dell’Ottocento e dei movimenti popolari che li caratterizzarono (sanfedismo ed insorgenze) sino all’Unità d’Italia. Arco di tempo in cui vennero poste le basi del Risorgimento. Ebbene, saltano fuori alcuni “temi scomodi” della nostra storia patria che la agiografia ufficiale ed i testi scolastici hanno sempre occultato.
A differenza di quanto avvenne nelle rivolte sanfediste e delle insorgenze, in cui il popolo fu protagonista attivo di quelle lotte e di quelle rivolte, nel Risorgimento, al contrario, registriamo la quasi totale assenza di un consenso popolare e di partecipazione alla sua realizzazione.
Insomma, che il popolo non fu mai un soggetto protagonista, ma in alcuni casi avverso alle lotte e agli ideali del Risorgimento, ne è esempio emblematico ciò che accadde a Carlo Pisacane, ucciso e massacrato a Sanza insieme ai suoi compagni dopo la sbarco a Sapri nel luglio del 1857 da quegli stessi popolani e contadini che voleva liberare ed affrancare dalla “tirannide” borbonica. E mal gliene incolse.
In questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto unitario fu così possibile ai moderati cavourriani dirigere il processo di unificazione, e modellarlo ai propri fini e ai propri interessi in chiave antimeridionalista e a tutela degli interessi del Nord, cosa che dura sino ai nostri giorni, con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne fu portatore.
Con la “rivoluzione-restaurazione” il Piemonte assume una funzione di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali, dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo piemontese.
“Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora Gramsci, che fece pagare al Sud e alla Sicilia, sotto tutti i punti di vista repressivi ed economici, il prezzo più alto. Ed a proposito delle repressioni e degli eccidi operati dai piemontesi nel Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia – repressioni ed eccidi che vanno impropriamente sotto il nome di lotta al brigantaggio, mentre in effetti si trattò di una vera e propri guerra civile, una lotta dei contadini contro i piemontesi – ancora una volta Gramsci, nel 1920, in un suo puntuale articolo su Ordine Nuovo, scrive:
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare chiamandoli briganti”.
Per questo credo che per un’obiettiva rivisitazione storica degli avvenimenti, dei vizi d’origine e delle cause di debolezza che portarono a una mal digerita e mai metabolizzata Unità d’Italia sia oggi più che mai opportuna. Ben venga, insomma, una attenta rilettura degli scritti di Gramsci e di tanti altri autori sull’argomento, perché al di là di celebrazioni retoriche e trionfalistiche, per rispetto della verità storica, siano anche, in tal modo, consentiti, a ognuno di noi e ad alcuni storici, significativi e doverosi momenti di riflessione.
In tal senso che vanno riletti gli scritti di tanti storici ed economisti quali, tra gli altri: Giorgio De Sivo, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Carlo Alianello, Nicola Zitara, Gigi Di Fiore, Lucy Riall, Michele Topa, Lorenzo Del Boca, Pino Aprile e tanti altri che, con il tempo, divengono sempre di più. Scrittori che, sino ai nostri giorni, si sono cimentati nel ricostruire, in un processo di revisionismo storico, quelle verità che purtroppo ci sono state per lungo tempo negate dagli storici di regime.
Ripercorrere la storia attraverso queste riletture e ribadire, a differenza da quanto propinatoci dalle storiografie e dalle iconografie risorgimentali ufficiali, che il processo unitario si è realizzato sulla pelle e con il contributo delle genti del Sud, che Garibaldi non fosse tanto eroe più di quanto lo si è dipinto sinora, che Vittorio Emanuele II° non fu affatto il re galantuomo riportato enfaticamente sui libri di storia e che i piemontesi non furono tanto liberatori quanto conquistatori e massacratori delle popolazioni del Sud e che la “questione meridionale” è sorta con l’occupazione manu militari del Mezzogiorno d’Italia, significa, in contrasto ad una cultura storica negazionista, con un atto di verità, rendere giustizia alle popolazioni meridionali e alla Sicilia che ,al processo unitario, hanno sempre dato il loro peculiare contributo.
Insomma è proprio l’ora di finirla con le bugie!
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