Non c’è molto da prendere dalla nobiltà della Sicilia. A parte i casi di grandi personaggi – che si contano sulla punta delle dita – la loro vita è passata tra tavoli da gioco, sfruttamento di zolfatari e contadini, ozio, granite pasticcini. Dissipando fortune e arrivando a vendere le propri case e le proprie ville con i parchi attorno per continuare la propria inutile e parassitaria vita. Talvolta riducendosi a fare gli affittacamere, senza onore né nobiltà, con gli appartamenti permutati con le aree delle case, delle ville e dei parchi, rese edificabili da una politica fatta da miserabili
Il recente articolo di Lino Buscemi (Da casa nobiliare a ufficio immigrazione – La stella in declino della gran villa ai Colli), pubblicato su La Repubblica, è un significativo esempio di scrittura ipertestuale.
Buscemi descrive sapientemente la progressiva decadenza di un immobile, testimone e portatore fino ai giorni nostri di una sua storia e di tutta una cultura, attraverso i suoi progressivi, graduali ingaglioffamenti nelle sue successive destinazioni d’uso, e ci dà, con asettico distacco, ma non senza che traspaia una punta di dovuto disprezzo, la cifra reale e grottesca della parabola di un ceto.
E’ esattamente come leggere Tomasi di Lampedusa.
All’inizio de Il Gattopardo, nel descrivere il personaggio di Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Giuseppe Tomasi di Lampedusa usa queste parole: “… stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo”.
Riportiamo a mo’ di commento le parole di Franco Torre dal suo articolo su Salvare Palermo:
“La nobiltà siciliana non si è mai interessata delle condizioni della Sicilia. Tomasi di Lampedusa non poteva scegliere parole più efficaci di queste per descrivere la voglia di distruzione, il non sentirsi parte di una comunità, il disinteresse per la sorte dei propri simili, che caratterizzano il personaggio del Gattopardo, e che da sempre si ritrovano, salvo rarissime eccezioni, nella nobiltà siciliana. Una nobiltà alla quale è stata sempre estranea l’idea del fare, del costruire qualcosa, l’importanza di contribuire, attraverso la realizzazione di cose concrete, che lascino la memoria di sé, al benessere della vita degli altri, di quelli che vivono nella città, nella terra nella quale si vive. Questo perché la nobiltà siciliana ha sempre considerato la società un’entità estranea, separata da una distanza siderale dal proprio mondo, un mondo a parte. Una nobiltà, quella siciliana, mai stata un esempio di quello che una nobiltà illuminata può e deve offrire, priva com’è sempre stata del senso più autentico del termine ‘nobile’, che non si riduce di certo all’esibizione di stemmi di famiglia. In definitiva, una nobiltà più di nome che di fatto. Nobili bisogna esserlo nei comportamenti, non negli aspetti esteriori. Ma in Sicilia, come si sa, l’apparenza è tutto”.
Verissimo! Questo fu il baronaggio. Attenzione: il baronaggio, come ci invita a distinguere il professore Andrea Piraino, più che il feudalesimo, di cui il baronaggio è una degenerazione, durò, unico in Europa, fino a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Esso è stato il cancro che ha corroso e corrotto questa nostra Isola, ostaggio per quasi mille anni di gente che, lo confermiamo, salvo rarissime eccezioni, si è rivelata inutile, incolta, cafona, analfabeta rozza, vuota, tronfia e volgare.
Non c’è nobiltà alcuna nel dissipare il proprio patrimonio ai tavoli da gioco; non c’è alcuna nobiltà nello sfruttare zolfatari e contadini, spremendone il sangue fino all’ultima goccia; non c’è alcuna nobiltà nel consumare nell’ozio, tra granite e pasticcini, le proprie sostanze, prima le rendite e poi il capitale, arrivando a vendere le propri case e le proprie ville con i parchi attorno per continuare la propria inutile e parassitaria vita, e riducendosi a fare gli affittacamere, senza onore né nobiltà, con gli appartamenti permutati con le aree delle case, delle ville e dei parchi, rese edificabili da una politica fatta da miserabili.
Il male purtroppo è tralaticio. Si trasmette e si eredita e sfortunatamente per noi, come si legge in un commento anonimo all’articolo di Torre, “la borghesia palermitana ha ereditato questo vile atteggiamento che è il peggiore dei mali”.
La salvezza è difficile, ma non impossibile.
Foto tratta da realestateinsicily.eu
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Purtroppo è vero che la classe nobiliare siciliana non abbia intuito che il mondo stava cambiando ed avrebbe dovuto prendere coscienza di potersi inserire nella classe dirigente per ottenere il rispetto del proprio ruolo e salvaguardare il proprio patrimonio.
Sono pochi gli esempi di famiglie nobili che hanno intrapreso attività imprenditoriali.
Consiglio di dare una lettura al mio romanzo di recente pubblicato da Nuova Ipsa Editore dal titolo "Utopia mediterranea" per sognare una Sicilia che sarebbe potuta essere e che purtroppo non è!
Mi sembra che il testimone sia passato ai nuovi nobili , i politici di ogni partito. Tutti pensano ai propri interessi, la storia si ripete.