Senza l’appoggio dei picciotti della mafia, Garibaldi e i Mille, una volta sbarcati a Marsala, avrebbero trovato grandi difficoltà. Invece, grazie ai mafiosi, trovano la strada in ‘discesa’. Idem a Napoli, dove i camorristi giravano con la coccarda tricolore. La testimonianza del boss, Joseph Bonanno. Le tesi di Rocco Chinnici. La lunga stagione dei delitti ‘eccellenti’. Fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove perdono la vita, rispettivamente, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e gli uomini e le donne delle rispettive scorte). Con quest’ultimo, ammazzato perché si opponeva alla trattativa tra mafia e Stato
di Ignazio Coppola
Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia che, sin dai tempi dell’invasione garibaldina in Sicilia, si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli.
In Sicilia in quel lontano maggio del 1860, infatti, accorsero, con i loro “famosi picciotti”, in soccorso di Garibaldi, i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele, così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi, addirittura, diverrà generale garibaldino e verrà ucciso tre anni dopo, nell’agosto del 1863, nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose.
Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri.
Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o n, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e detrminante contributo all’unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.
Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Joseph Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina:
“Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”.
Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere.
Con l’unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.
Di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto, il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia presso il Palazzo di Giustizia di Palermo, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo.
Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia – di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata, il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi:
“Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.
Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire:
“La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.
Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti de ‘I pugnalatori’ di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palizzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che, della lotta alla mafia, ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio, sino alla morte.
Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che, da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato – per le connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato – con la vita il suo atto di coraggio.
Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgete continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare – da 156 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva – la vita dei siciliani onesti.
Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.
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"Mi raccontava mio nonno..."
Con tutto il rispetto per il nonno dell'autore, che valore potrebbe avere una testimonianza del genere, fondata sui si dice che?
Poche, brevi considerazioni. 1. La mafia, allo "stato embrionale" fino al 10 maggio 1860, il giorno 11 è così strutturata e consolidata da fornire un sostegno "£determinante" alla spedizione garibaldina. Sorprendente sviluppo in sole 24 ore. 2. Di Santo Mele dice l'Abba alla data del 26 giugno che, processato, sarebbe stato condotto a Palermo dove gli avrebbero riempito il cranio di piombo. Fucilare i preziosi alleati è, come tutti sanno, il miglior modo per riuscire in un'impresa. 3. Turi Miceli (personaggio ambiguo, che in verità si chiamava Di Miceli, e mutò continuamente campo) fu tra i protagonisti della rivolta del "sette e mezzo" al quale questo sito ha dedicato una rievocazione dai toni epici. Credo che nessuno voglia ricondurre il "Sette e mezzo" sotto l'egida mafiosa o sostenere che Turi Di Miceli si fosse convertito nel giro di sei anni. 4. Paolo Pezzino invitava ad evitare "le ricostruzioni mitiche dell'impresa garibaldina, resa possibile dalla mafia", Peccato che il suo invito venga spesso ignorato, anche se so bene che la mitologia è più suggestiva della storiografia.
Concordo, Augusto Marinelli. la storiografia è ricerca, lavoro, analisi, studio dei fenomeni etc...
la mitologia è più affascinante e più suggestiva, spesso non è altro che una banale scorciatoia per semplificare questioni complesse come la storiografia risorgimentale etc...
è iniziata con i Normanni , che in contrasto con il Vaticano, diedero ampi poteri al vescovo di Monreale , e questo contrato fra Monreale e lo stato continua anche ora