Nel nuovo libro dello storico, nonché ex direttore del Corriere e della Stampa, due capitoli dedicati ai fatti risorgimentali e al Sud Italia. Un tentativo di ripulire la storia da mistificazioni e pregiudizi perché “ad ogni stagione, la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte”. “Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”
“La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Anzi di più. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera de Deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia è da attribuire a forze della pubblica sicurezza in combutta con bande illegali»… “Pezzi di Stato che «non hanno rossore di trattare con i malviventi»”.
Comincia così il secondo capitolo del nuovo libro di Paolo Mieli intitolato In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia (Rizzoli, euro20) che in 280 pagine ripercorre eventi storici -non solo italiani -con l’obiettivo di ripulirli da mistificazioni, pregiudizi e strumentalizzazioni.
L’ex direttore del Corriere e de la Stampa che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla divulgazione della storia, spiega così il senso del suo ultimo lavoro: “Per vincere le guerre del presente e del futuro dobbiamo prima regolare un conto bellico con il passato. Dobbiamo eliminare molte menzogne. Ad ogni stagione la politica cerca di tirare la storia dalla sua parte. Ogni storico deve muoversi a smentire la versione che ha già in testa, non deve cercare conferme. Chi studia il passato e cerca una conferma a quello che pensava prima è una persona intellettualmente disonesta”.
Insomma, come sempre, Paolo Mieli (tra i pochissimi intellettuali italiani, ricordiamo, a parlare con onestà dei danni prodotti al Sud dal Risrgimento, sotto un video in proposito), si tiene ben lontano dalla palude degli storici ‘salariati’ senza temere “sorprese e delusioni”.
“Se vogliamo essere in pace con il passato – dice Mieli- dobbiamo essere disposti a rivedere qualcosa di importante, anche pezzi della memoria collettiva cui siamo legati”. Nel volume si passano al setaccio eventi quali la Rivoluzione francese, la storia di Israele, personaggi come Stalin e Hitler, ma anche i falsi martiri della fede, Cicerone, Lincoln, D’Annunzio, i primi scandali dell’Unità d’Italia per un totale di 27 piccoli saggi.
Tornando al secondo capitolo intitolato “La vera trattativa tra Stato e mafia”, Mieli, oltre alle dichiarazioni del parlamentare Brofferio, cita anche La mala setta di Francesco Benigno che descrive come “Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse ancora di più della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato Unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia e camorra a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo”. La storiografia non ha mai voluto approfondire questi nessi, “una reticenza che dai testi dell’epoca è transitata nelle pagine degli storici”.
Mieli aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi qualche contatto improprio venne addebitato a Giuseppe La Farina, emissario di Cavour”.
Lo stesso avvenne a Napoli con Silvio Spaventa: “Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, a un certo punto venne accusato dalla stampa democratica di usare metodi illegali non troppo diversi da quelli usati dalla famigerata polizia borbonica”.
Ma l’uomo simbolo di questa stagione resta Liborio Romano che “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”.
E, ancora, il fenomeno del brigantaggio e “l’intento propagandistico di inquadrare in quella categoria tutto ciò che che accadde nel Sud Italia dal 1861 al 1865”.
Particolarmente interessanti le parole di Diego Tajani, Procuratore del re a Palermo, secondo il quale, come si legge nel volume, “la mafia è temibile non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò fonte di una rete invisibile di protezione”.
Interessantissimo anche il capitolo dedicato alla corruzione – intesa come latrocini- dei nuovi politici dello Stato unitario e della stampa al loro servizio. Così come i successivi che offrono una lettura della storia come non l’abbiamo mai letta e che non esita a fare scendere dal piedistallo personaggi celebratissimi (lo stesso Cicerone pare abbia un tantino ‘abusato’ della storia del proconsole Verre in Sicilia “che era un politico in fase di declino”).
Va da sé che il volume è un raggio di sole tra le nebbie che avvolgono in particolar modo la vera storia del Sud Italia e del Risorgimento.
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