Referendum: ecco perché la riforma voluta dal Governo Renzi è antidemocratica

Condividi

Invitiamo i nostri lettori e, in generale, tutti i cittadini a leggere attentamente due passaggi della riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi: gli articoli 117 e 120. Nel primo caso il Governo diventa l’arbitro dell’unità nazionale: niente più binari certi e prefissati, ma mani libere a chi governa! Nel secondo caso lo stesso Governo, togliendo soldi ai pubblici amministratori, può mandarli a casa senza alcun controllo, sostituendosi, di fatto, al Diritto amministrativo. Secondo voi quelli che, in buona fede, vanno dietro a Renzi hanno capito la gravità di questi due passaggi della ‘riforma’?  

Prego caldamente quanti – per vari motivi e in assoluta buona fede – ritengono  che le accuse di antidemocraticità della riforma referendaria siano esagerate, oppure ritengano  esagerati quelli che parlano di legge liberticida, di leggere con estrema attenzione i seguenti commi di quelli che, se vincesse il SI, sarebbero i nuovi art. 117 e 120 della nostra Costituzione.

Ecco il primo, abilmente mimetizzato in un fondale di norme e normette apparentemente innocue.

“Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

Bene, innanzitutto, il Governo, curiosamente, riserva a sé stesso il potere di iniziativa legislativa nella materia, escludendo che anche il Parlamento possa intervenire con una proposta di legge quando lo richieda “la tutela … etc … etc”:

il che vale quanto a dire che soltanto il Governo è il giudice della necessità di tutelare l’unità giuridica ed economica della Repubblica, ovvero l’interesse nazionale.

Che cosa sarà mai questa unità giuridica ed economica della Repubblica? Ce lo spiegherà, al bisogno, ovviamente  lo stesso Governo. Così come ci spiegherà come le regioni, a mezzo della loro legislazione esclusiva, che si può muovere entro binari certi e prefissati, possano con proprie leggi attentare all’unità giuridica ed economica della Repubblica, o addirittura minacciare l’interesse nazionale.

Eppure lo Stato si tutela contro questi potenziali disintegratori dell’Unità e si dota dell’arma assoluta, “l’ordigno di fine di mondo”, la clausola di supremazia che, in buona sostanza, supera e può porre nel nulla il riparto faticosamente articolato nei commi precedenti.

Sarebbe stato più serio, e più realistico, fare un comma unico in cui si dicesse: “Care Regioni, siete su scherzi a parte”.

Andiamo  alla seconda norma liberticida, l’ultimo comma dell’art 120 della riforma:

“La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà, del principio di leale collaborazione e stabilisce i casi di esclusione dei titolari di organi regionali e locali nell’esercizio delle rispettive funzioni quando è accertato lo stato di grave dissesto finanziario”.

Questa norma è, se fosse possibile, più pericolosa della precedente. Contiene una riserva di legge (e sappiamo bene come  lo Stato di norma scioglie queste riserve, basta pensare al Porcellum che ha legiferato sul modo con cui il popolo esercita la sua sovranità, sancita dalla Costituzione), una riserva di legge, dunque, circa la modalità di esercizio di un potere che è scomparso con la Rivoluzione francese: Quello del Re di mandare a casa qualunque amministratore pubblico.

Infatti, di che si tratta?

Le fattispecie previste dalla norma sono 2: i poteri sostitutivi e la rimozione del pubblici amministratori.

Nel primo caso, i poteri sostitutivi, che oggi sono pienamente e compiutamente regolamentati nel Diritto amministrativo, rischiano di venire sconvolti e di degradare ad arbitrio. Infatti, se ci sono e funzionano, è chiaro che non piacciono e che si vogliono più cogenti e stringenti nelle modalità di applicazione e più estesi nelle fattispecie (si invia un barbiere per i sindaci che, non dando esecuzione ad un’ordinanza prefettizia, non si tagliano i baffi).

Niente di buono ci garantisce la fantomatica leale collaborazione. Se lo Stato agirà con la stessa leale collaborazione  che applica in Sicilia, tutto il Paese, non più la sola Sicilia avrà a che fare con uno Stato truffaldino, mistificatore, imbroglione, inaffidabile, moroso e “tappiatore”.

Il culmine dello strozzinaggio applicato alla Costituzione italiana (la più bella del mondo, ah Benigni!) è la previsione dell’esclusione (per pudore non è detto rimozione, che è l’istituto giuridico che in realtà si vorrebbe applicare, ma la mistificazione in questa riforma è totale), ovvero la rimozione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni.

Anche qui quanta femminea, botticelliana delicatezza!

Più rozzamente, stiamo parlano di Presidenti di Regione o di Città metropolitane e di sindaci che possono essere rimossi se fanno saltare il banco. Ovvero il bilancio. Cioè se si ritroveranno nelle condizioni in cui oggi si trovano quasi tutti i sindaci dei Comuni siciliani (ma i sindaci renzilecchini  siciliani a questo non ci arrivano, vanno appresso al PD e dunque  vanno al macello come i tonni, le mucche o i maiali, però con minore consapevolezza di quelle povere bestie).

Chi stabilirà chi arriva e chi parte? Lo Stato ovviamente, che ha in mano il boccino del finanziamento degli enti locali. Basterà dare a uno e ad un altro solo promettere ed il gioco sarà fatto.

Unica a salvarsi dalla mattanza potrebbe essere la Sicilia, che ha autonomia finanziaria, ma non sarà così finché sarà governata com’è adesso, da ascari e servi senza attributi, che per restare in sella un’altro po’ venderebbero pure i parenti, oltre che la Regione.

Pubblicato da