Leoluca Orlando è in politica da quasi quarant’anni. Da quando, nel 1978, faceva parte del gruppo vicino all’allora presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella. Da allora Orlando, con alcune parentesi, si è identificato con Palermo. Da quattro anni è sindaco (lo è già stato alla fine degli anni ’80 e negli anni ’90). Un paio di domande sul perché alcune questioni vengono lasciate incancrenire
Sono trascorsi quasi quarant’anni da che Luca Orlando è un uomo pubblico. Era il 1978, Piersanti Mattarella si insediava a Palazzo d’Orleans come Presidente della Regione e iniziava la costruzione della “Regione delle regole”, della “Regione che corre, non cammina”.
Ognuno a suo modo, e sul terreno delle proprie competenze e delle proprie responsabilità, istituzionali, di collaborazione professionale, si impegnò per concorrere al conseguimento di quegli obbiettivi. Era una bella squadra, quella; lavorò, sperò, soffrì. Molto, moltissimo.
La compagnia si sciolse, ognuno prese la sua strada. Quella di Leoluca Orlando ha fatto parte integrante della storia della nostra città e della nostra Sicilia, con l’adesione convinta di tanti che sperarono che veramente qualcosa potesse cambiare.
Tante cose cambiarono, tante purtroppo no. Una storia incompiuta, in cui i tanti nodi gordiani che strozzano la nostra convivenza civile non sono stati recisi.
Mancò il coraggio? Mancò la “possa”? O la Fortuna? C’entrò il carattere? E se sì, quanto?
Tanti purosangue hanno in comune lo stesso limite caratteriale. Devono essere primi e corrono avanti senza controllo, perché non sopportano l’ombra che gli altri cavalli gli fanno. Raramente un cavallo così arriva da vincitore fino alla fine. Infatti non è vincere essere di nuovo il primo a Palermo.
Da cavallo di testa a cavallo di ritorno, da enfant prodige a enfant gaté. Nessun seme gettato, nessuna autentica prole politica, né pupilli, né successori, solo collaboratori, distanti. Terra bruciata, terra di eucalipti, terra di pini marittimi, bellissimi, ma con le radici sterili.
E veniamo ai nostri giorni. Addio città europea, città della cultura, dell’accoglienza, dei fiori, dei canti, dei suoni e delle luci. Un’ipoteca sottoscritta tanti anni fa è venuta a scadenza, una cambiale firmata anni fa è stata messa all’incasso. La ricerca del consenso attraverso il posto di lavoro laterale nella pubblica amministrazione comunale o nelle partecipate si è rivelata un boomerang, un moloch che tutto ingoia: risorse, prospettive, speranze e buoni propositi.
Finito dunque?
Ci restano i miracoli. A qualcuno ne basterebbero due o tre.
Glissiamo sulla questione della mobilità urbana e della raccolta dei rifiuti urbani, la dimostrazione cioè di come piccole cose, umane, finite ed effimere possano trascendere a categorie dello spirito, come “infinito” e “eterno”.
Caro Sindaco Orlando, da tempo immemorabile troneggia in pieno centro, tra le vie Dante, Paternostro, Villafranca e Garzilli un ammasso di macerie che appartengono ad altra categoria dello spirito, l’intoccabilità. Uno spazio urbano preziosissimo, vitale per la città, sonnecchia in un abbandono quasi secolare che forse per qualcuno è fonte di una cospicua rendita di posizione.
Di chi è quello spazio, signor Sindaco, di Dio o di Mammona? Perché esiste ancora, scolpito nel tempo ed immutabile da oltre 70 anni?
E ancora, signor Sindaco. Perché, da oltre 30 anni, più della metà di Piazza Principe di Camporeale è chiusa e transennata? Quali misteri si celebrano al riparo di quelle recinzioni?
E ancora: perché, unica città europea di medie dimensioni, per le vie urbane di Palermo scorrazzano autobus extraurbani, corriere e pullman adibiti ai trasporti in provincia? Perché alla fine delle autostrade da Catania e da Trapani non sono state edificate stazioni e terminali per autobus extraurbani, la cui presenza continua in città ingorga “il traffico” e inquina senza misura?
E ancora: perché non viene risolta una volta e per tutte la questione della foce del fiume Oreto, facendo di un problema un’opportunità, scavando e ampliandone il letto per ricavarne un utile e suggestivo canale navigabile e di rimessaggio barche che potrebbe arrivare da Sant’Erasmo alla altezza della Stazione Centrale?
Perché, infine, non viene ricostruita Villa Deliella, in Piazza Croci, tale e quale era prima, lasciando cuocere nel suo brodo certa cultura di architetti disfattisti, cultura che se avesse prevalso nella Germania del secondo dopoguerra avrebbe lasciato cumuli di macerie ammonitrici, o peggio, avrebbe abbellito città come Berlino e Lipsia con alluminio anodizzato?
Ci provi, Sindaco, sarebbe come lanciare alla barbarie e all’incultura un messaggio forte e chiaro: NON PREVARRETE!!