Leggende, anelli magici, miti tra Gige, re Salomone e Natham. Storie affascinanti. Racconti che ci dicono una grande verità: e cioè che i sacrifici, per essere ben accetti alla divinità, devono essere fatti con cuore puro e per gli altri, non per sé
Nella antica mitologia l’anello era il simbolo tradizionale dell’eternità e il simbolo del cerchio in un oggetto dai molti poteri. Molte leggende e molti miti che hanno per protagonisti anelli magici e i loro poteri sono giunti fino a noi.
L’anello di Gige, se rigirato nel dito, faceva diventare invisibili. Platone ne parla a proposito della possibilità che si apre all’uomo di fare del male, quando si ha l’assoluta certezza di non essere visti.
L’anello di re Salomone aveva una pietra incisa ed era fatto di oro e rame (i simboli del bene e del male) e aveva il potere di dominare i demoni.
L’anello di Nathan, un opale dai cento riflessi colorati, aveva il potere di rendere grato a Dio e agli uomini chiunque lo portasse con fiducia.
Nella mitologia nordica l’anello è soprattutto simbolo e strumento di potere. La saga dei nibelunghi è incentrata su un anello preziosissimo che fa parte dell’immenso tesoro di quel leggendario popolo e che finì sepolto dalle acque del fiume Reno.
A questo punto vi starete chiedendo: ma che c’entrano i sacrifici fatti per interesse con gli anelli?
Arrivo al punto. Erodoto nelle sue Storie ci parla di Policrate, tiranno di Samo, famoso per la sua proverbiale ricchezza e per la sua fortuna. Ritenendo che un uomo troppo fortunato prima o poi sarebbe stato colpito da una grave sventura, Amasis, faraone d’Egitto, suo alleato, gli consigliò di rinunciare a qualcosa di veramente prezioso, in modo che tale perdita, essendo una grande sventura, ne scongiurasse una peggiore. Policrate decise perciò di privarsi di un anello preziosissimo cui era molto affezionato e lo gettò in mare.
Tempo dopo, un pescatore pescò un pesce di dimensioni notevoli e decise di farne dono a Policrate. Mentre i cuochi lo preparavano per cucinarlo, ritrovarono nella sua pancia l’anello che il tiranno aveva gettato in mare.
Quando Amasis seppe che Policrate era riuscito a recuperare l’anello, capì che egli era un uomo troppo fortunato e che, prima o poi, sarebbe stato colpito da una grave disgrazia. Non volendo essere travolto anch’egli nella rovina di Policrate, ruppe l’alleanza. Tempo dopo, i timori di Amasis si avverarono. Il re persiano Cambise attirò con l’inganno presso di sé Policrate e lo fece giustiziare.
Ammettiamo solo per un momento che un gesto superstizioso come quello compiuto da Policrate, frutto di un consiglio interessato (il faraone capiva bene che alla rovina del suo potente alleato sarebbe seguita la sua, come poi fu), ammettiamo dunque che quel gesto abbia un fondamento razionale.
Ammettiamo dunque che un sacrificio materiale possa rimettere in equilibrio una situazione uscita fuori dai canoni della moderazione. Che cosa non funzionò, sempre stando al paradosso, nel sacrificio di Policrate?
Il fallimento del sacrificio sta nel suo presupposto. Che è quello di salvarsi. Salvare le proprie ricchezze, il proprio status. Quindi è un falso sacrificio, fatto esclusivamente per se stessi, per il proprio tornaconto, il proprio interesse.
Forse i sacrifici, per essere ben accetti alla divinità, devono essere fatti con cuore puro e per gli altri, non per sé.