Una targa posta in via Napoli, all’altezza dei vintitrì scaluna, ne ricorda l’uccisione. La sua intensa ma breve avventura ci ricorda che una vera rivoluzione democratica ha bisogno di un progetto politico a lungo termine e della forza dei giovani. Ma allora perché la ‘rivoluzione’ imbrogliona di Crocetta sta durando tanto? Questo è un altro discorso…
Chi ha frequentato la facoltà di giurisprudenza a Palermo sa bene dov’è la via Giuseppe D’Alesi, una viuzza stretta che si apre in via Maqueda, a lato dell’Ateneo, e arriva a piazza Bologni.
Ma pochi sanno chi fu Giuseppe D’Alesi.
La sua meteora politica è una delle tante prove che i cerini bruciano intensamente, ma solo per pochi istanti, che perché un fuoco duri ha bisogno di alimentarsi con buoni ceppi, di legno stagionato, ben disposti e collocati in un ambiente idoneo.
Giuseppe D’Alesi visse tra il 1612 e il 1647, appena 35 anni.
Il 20 maggio del 1647 a Palermo scoppiò una rivolta, una delle tante, a causa della carestia e del conseguente aumento del prezzo del pane. I tumulti si estesero a tutta la Sicilia e il vicerè Zuniga fu costretto a fuggire. D’Alesi si fece proclamare dal popolo capitano generale e sindaco perpetuo della città. Per tre mesi tenne in scacco nobiltà e clero e ottenne persino riforme e miglioramenti.
La mancanza di un progetto, l’inconsistente ed utopistica miscela di idee sociali, oltre alla sua vanità personale lo perdettero. I suoi avversari riuscirono a screditarlo presso lo stesso popolo che lo aveva acclamato e venne trucidato da un “nobile cavaliere”.
Quale degnazione!
Una targa è posta sul luogo della su uccisione, avvenuta in Via Napoli, al civico 57, all’altezza dei “vintitri scaluna”
Fu un precursore e mentore di Masaniello che dopo di lui (7 luglio 1647) capeggiò una rivolta antispagnola e fece gli stessi errori e la stessa fine.
Che cosa ci insegna la parabola di D’Alesi? Che una vera rivoluzione, soprattutto democratica, l’unica realisticamente possibile, ha bisogno di un progetto politico a lungo termine, di un programma concreto, ha bisogno di confronto, condivisione, del contributo di persone che siano guidate da un interesse esterno, la cui storia parli per loro, ma ha bisogno soprattutto di giovani, e della forza dei loro sogni.
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Una cosa restò di quella rivolta. Da allora, e sino alla riforma del 1812, uno dei Giurati (cioè oggi diremmo degli Assessori) che componevano il Senato palermitano (oggi diremmo la Giunta) era di estrazione popolare, cioè tratto dalle Corporazioni di Arti e Mestieri che costituivano il Consiglio Civico (oggi diremmo il Consiglio Comunale). Gli altri Giurati continuarono ad essere estratta dalla piccola nobiltà di toga (i cosiddetti "curiali"), mentre il Pretore (oggi sarebbe il Sindaco) veniva estratto dalla più alta aristocrazia del Regno, ed aveva il ruolo di "Sindaco" (cioè oggi sarebbe "deputato") nel Braccio Demaniale, di cui, per diritto, costituiva il Capo (cioè il Presidente della Camera Bassa del Regno). Formalmente Pretore e Giurati erano acclamati dal Consiglio Civico, ma nella realtà indicati dal Viceré. Il Consiglio Civico era composto dai "Consoli", regolarmente eletti negli "squittini" (oggi sarebbero scrutini) all'interno delle Corporazioni. C'era cioè una larva di democrazia municipale. Che, al momento giusto, poteva evolversi in una democrazia più natura, come nel 1812, quando il Pretore indicato dalla Corona non fu acclamato dal Consiglio Civico che ne elesse un altro, mandando al Parlamento persona non gradita all'esecutivo.