Il sesto capitolo del romanzo siciliano di Franco Busalacchi che stiamo pubblicando online
il quinto capitolo qui
E così la maggiore venne chiamata Agata. Sotto il benefico influsso delle sua pietra, la donna avrebbe dovuto prevenire il maltempo e impedire che i fiumi straripassero, ma per un bizzarro destino fu una grande tragediatrice, apportatrice lei stessa di cattivo tempo e con esso di cattivo umore per il suo prossimo.
La secondogenita si chiamò Giada, e benché il potere della pietra dovesse renderla saggia e coraggiosa, anche per lei si verificò il contrappasso e la ragazza fu l’esatto contrario. Nella vita agì in modo sconsiderato e vile. Da Ambra, la sua prediletta, suo padre avrebbe voluto che la pietra eponima stornasse gli spettri della vita ma lei fu, come spesso capita di osservare nella trasparenza della resina fossile, soltanto un piccolo, indifeso animaletto, imprigionato per sempre nei suoi incubi.
La vecchia Monasteri, con tre ragazze da sposare, era consapevole che ben presto non sarebbe più stata in condizione di scegliere quelli cui far frequentare la sua casa e quelli da tenere invece lontani. Aveva quindi cominciato a raffrenare la rigidità che presiedeva alle sue selezioni, aprendo a una borghesia i cui ascendenti fossero quantomeno in sospetto di appartenenze misurabili, anche se solo per immemorabile, con l’araldica.
Proprio Agata, la sorella maggiore di Ambra, ormai da troppi anni in età da marito, riflettendo sulla perfetta, reciproca corrispondenza di età tra i due fratelli e le due sorelle, aveva maturato il convincimento che i Santandrea avessero obbiettivi legati alle naturali condizioni dettate dall’età di ciascuno di loro e che quindi le aspirazioni del maggiore dei fratelli fossero per lei e quelle di Federico per Ambra.
Le cose andarono diversamente. Agata non piacque a Carlo, nemmeno un po’, mentre Ambra si innamorò subito di lui. Fu lo stesso Federico a capire tutto e, subito ritiratosi, dopotutto la sua era solo una giovanile infatuazione, fu lui ad aprire gli occhi all’incredulo fratello che pure aveva subìto il fascino della riservata e severa Ambra i cui occhi neri e profondi brillavano quando lo vedeva arrivare e ne seguivano poi gelosamente i movimenti per tutta la serata. Carlo, stranamente, quando incrociava il suo sguardo, non provava alcun disagio, né imbarazzo. Parlarono pochissimo. La loro intesa nacque dal silenzio e si nutrì del silenzio, un silenzio intimo, mutuo e consapevole e fu da subito profonda. Non c’era devozione, né ammirazione, solo complicità, appagamento, abbandono fiducioso e reciproco, certezza istintiva della forza di un sentimento nato per ragioni comuni del cuore, inespresse eppure chiare.
Quando, a mezze frasi, quasi arrossendo, lui, già uomo, ne parlava col giovane fratello Federico, questi sorridendo gli rispondeva semplicemente che quello che Carlo sentiva era esattamente ciò che lui in quella casa aveva visto fin dal primo istante; anzi, precisò, era quello che si vedeva da sei miglia lontano.
E dunque Agata, che non aveva mai varcato la soglia della casa dei Santandrea, quando l’emozione si andò smorzando e le visite si furono diradate, si presentò. Veniva, disse, per un suo senso di giustizia, per amore di verità anche se, come poi pensò Carlo, la sua giustizia postuma somigliò troppo a una vendetta. Agata veniva per liberare e spargere in quella casa tutto il veleno che in quegli anni aveva secreto dentro di sé. Non disse molto, solo che sua sorella, subito dopo essere diventata signorina… lui la capiva,vero? Aveva avuto strani attacchi di febbre. A lei, tenne a precisarlo, non fu permesso di vederla mai durante quella crisi, sua madre glielo impedì.
La febbre, altissima, a quanto si diceva, era durata tre giorni e sua madre le disse soltanto che c’era da temere per la vita di Ambra. La giovane, pare ancora febbricitante, era stata un giorno caricata, disse proprio così, caricata, su una carrozza, e, in tutta segretezza, senza un saluto erano partiti lei, la madre e lo zio prete. Erano mancati più di due mesi. Nessuno in casa aveva saputo dove fossero stati e della cosa non si parlò mai. Ambra si era ripresa benissimo, d’altronde, e non c’era motivo di fare domande.
“Perché mi dite queste cose?”, aveva domandato Carlo che al ricordo riviveva intatto il turbamento di quella rivelazione.
“Per due motivi, ve l’ho già detto ”, aveva risposto Agata, dissimulando la sua gioia maligna. Le era sembrato prima di tutto giusto informarlo e poi perché, alla luce dei recenti eventi, e qui Agata si era sforzata di simulare sofferenza, forse quei fatti che gli aveva rivelato e che potevano approfondirsi, potevano aiutarlo a capire quello che era successo a sua sorella e, forse, a curarla con maggiori speranze di guarigione.
Se Santandrea, in quel momento per lui terribile, avesse saputo mantenersi lucido e chiedersi come poteva approfondirsi la cosa, avrebbe anche potuto avere la certezza che Agata stava consumando una vendetta a lungo covata. Stava calunniando senza possibilità di contraddittorio e di confutazione gli altri protagonisti di quella storia, ormai tutti morti. Non disse nulla e si limitò a mettere alla porta la cognata, quando gli aveva chiesto di potere vedere la sorella.
Dunque era stato ingannato? Non voleva crederci… eppure… una giovane, bella e raffinata aveva sposato lui, un uomo semplice, non più giovane, non bello. Quella che gli era sembrata una conquista, una vittoria era stato il fine di una macchinazione? Sua moglie dunque era malata da anni, era stata sul punto di morire, era guarita ma solo temporaneamente? Il veleno di Agata agì potentemente su Carlo, una nuova, terribile preoccupazione lo sconvolse: e se Ambra era malata da prima di sposarlo, allora i suoi figli… quando nelle sue riflessioni giungeva a questo punto, non riusciva mai a concludere il pensiero.
Anche allora restò seduto alla scrivania, annichilito.
Spesso a quanti viaggiano per raggiungere una destinazione certa e tenuta per definitiva succede che, a mano a mano che aumenta la distanza tra ciò che si lasciano dietro e diminuisce quella che li separa dalla meta, capita che i pensieri che li agitano vadano mutando oggetto. Le cose lasciate dietro di loro assumono contorni via via più sfumati, le emozioni e i sentimenti ispirati dalle persone e dalle cose che si vanno allontanando cominciano a subire un lento processo di affievolimento che, col tempo, se non interviene qualcosa a richiamarli con la loro antica forza, si muterà in oblio. Al contrario, quello che li aspetta, anche se ne sanno concretamente poco, o, almeno, quell’idea che se ne sono fatta, diventa sempre più reale e presente.
Sistematasi nella carrozza, Eugenia aveva preso a riflettere più che sulla sua scelta e sulle sue future responsabilità, su tutto ciò che quella decisione aveva motivato e su quanto si era appena lasciata dietro se non per sempre, certo per lungo tempo. Una famiglia nella quale si sentiva ogni giorno più estranea, lei che, da sola, aveva stabilito di studiare e lavorare. Non erano state decisioni facili, né mettersi a studiare, né proseguire fino al diploma di infermiera specializzata. La sua matrigna l’aveva osteggiata e le sue sorelle canzonata. Il fratellastro, poi, l’aveva addirittura disprezzata, lui che era solito intervenire negli affari della famiglia di origine solo per far pesare la sua condizione di maschio e mai per fornire un aiuto quale che fosse, fingendo con se stesso che di nessun aiuto sua madre o le sorelle avessero bisogno.
Queste riflessioni tennero occupata la mente di Eugenia all’inizio del viaggio ed erano sempre accompagnate da una punta di sofferenza e da una intermittente nostalgia. Ripensava al lavoro in ospedale e già le mancavano più che le colleghe alcune pazienti che impegnavano le sue giornate, e non soltanto per l’attenzione che le richiedevano, ma soprattutto per un coinvolgimento emotivo che per lei era sempre stato inevitabile. Quelle donne disperate riuscivano sempre a condurla fino alla porta di mondi inesplorabili, fatti di sentimenti e di affetti deliranti, di logiche furibonde e di furori illogici. Ricordava l’incanto misterioso dei parlottii solitari e dei muti soliloqui in cui la traccia sicura di deduzioni inesorabili si mostrava in gesti a volte lenti e misurati, altre volte nell’improvviso saettare di mani e di braccia che segnavano, cerchiandolo o rigandolo, il vuoto. Erano gli accessi incomprensibili di anime che, chissà perché, immaginava nello stesso tempo sofferenti e felici, custodi incorruttibili del loro mistero.