I nostri politici costretti a fare i conti della serva sui rimborsi elettorali con la Guardia di finanza
Armati di scontrini, ricevute, fatture e pezze d’appoggio varie, alcuni onorevoli deputati del primo Parlamento d’Europa, autoequiparatisi ai senatori della Repubblica, hanno indossato il laticlavio e si sono costituiti alla Guardia di Finanza, Gruppo tutela spesa pubblica per dimostrare che le spese fatte con denaro del contribuente non erano pazze, ma sostenute nell’esercizio del loro mandato parlamentare e quindi nell’interesse pubblico.
Pirotecnici, funambolici, sudaticci, affannati, tremebondi, si sono dovuti avventurare sugli specchi, senza ventose e senza vergogna. Hanno difeso punto per punto l’indifendibile. Immaginate lo sforzo dei finanzieri, vuoi per non scoppiare a ridere di fronte a questa pantomima, vuoi per resistere alla umanissima tentazione di mollare una sberla a chi la sparava troppo grossa.
Questi qui non riescono nemmeno a suscitare sdegno, tanto sono ridicoli. C’era chi, viaggiando tra il nostro e un altro pianeta (Marte?) ha speso quasi 25 mila Euro. C’era chi, come una serva, ha esibito scontrini di ristoranti e bar. Dove sia l‘interesse pubblico in tutto questo lo valuterà il magistrato.
Ammettiamo solo per un istante che queste spese siano giustificabili e legittime. Io però mi faccio una domanda: sono pure giuste? Ricordiamo che anche un tempo nel nostro Belpaese perseguitare gli ebrei era legittimo. Ma era anche giusto?
E ancora. Se un qualunque cittadino decidesse di candidarsi alle prossime elezioni e volesse offrire una cena a una delegazione del suo partito dovrebbe pagare di tasca sua. Mentre se un qualunque deputato che si ripresentasse alle elezioni offrisse una cena alla stessa delegazione, anche questa cena la pagherebbe sempre quel cittadino, ma questa volta nella veste di contribuente. E la par condicio?
Ci sono avvocati costituzionalisti tra i miei lettori cui potrebbe interessare l’elegante questione?