Chi riflette sulla questione con animo sgombro da pregiudizi di parte capisce bene che un sistema come il nostro si presenta come un groviglio inestricabile che non può essere sciolto, che deve essere reciso come il nodo di Gordio e sostituito con un altro. Ma a ciò osta una considerazione: se le cose stanno così non è per caso.
E’ una anarchia controllata da una proterva conservazione di poteri e privilegi che essa genera e mantiene a pro di tutto l’apparato, magistrati, avvocati, burocrati ministeriali, che, proprio dalla lentezza del sistema giudiziario traggono la linfa vitale della loro esistenza. Non vi accorgete che quando si pone mano alla giustizia per una sia pur minima riforma, subito si moltiplicano e si complicano le procedure, si aumenta il numero degli organi e dei collegi, giudicanti, e inquirenti e se ne creano tanti quanto la fantasia ne può generare?
Il legislatore, sotto le varie spinte corporative, agisce come chi, di fronte ad un edificio fatiscente, piuttosto che demolirlo e ricostruirvene sopra uno nuovo, mette qualche puntello qui e là e sopraeleva un altro piano.
Io non ho ricette per rifondare il sistema, ovviamente, ma qualche ideuzza per un segmento di esso ce l’ho.
Sto parlando della giustizia nel processo del lavoro.
Qui potete leggere la prima parte
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