da Renato Sgroi Santagati* riceviamo e volentieri pubblichiamo
In questi ultimi temi sono tanti i Siciliani che si chiedono se è lecito pensare alla costituzione di un movimento indipendentista. In questo articolo si analizza questo tema alla luce delle previsioni costituzionali. L’obiettivo è raggiungibile, ma questo postula una forte coesione tra i gruppi politici che compongono il Parlamento siciliano ed una assoluta autonomia degli stessi dalle segreterie dei partiti nazionali
E’ legittima, in Italia, la costituzione di un movimento indipendentista? A quanto pare, in questi ultimi tempi, sempre più numerosi sono i Siciliani che si chiedono – finalmente! – perché la Sicilia deve rimanere legata politicamente ad una nazione che, in maniera sempre più chiara, mostra di non avere alcun rispetto per l’Isola e di considerarla – piuttosto che una regione come le altre – ma una sorta di colonia che ha solo doveri nei confronti del governo nazionale e nessun diritto.
Si chiedono quindi, sempre più spesso, i Siciliani, se non avessero ragione gli indipendentisti di Andrea Finocchiaro Aprile e se non sia il caso di riprendere coraggio e di pensare alla indipendenza dell’Isola, visto che lo Stato non ci dimostra alcuna simpatia e, anzi, ci spreme come limoni. Ma, al tempo stesso, si chiedono: è lecito pensare alla ricostituzione di un movimento indipendentista? O si corre il rischio di commettere un reato o, quantomeno, un illecito?
Per rispondere correttamente a questi quesiti, occorre innanzitutto esaminare e confrontare tra loro due norme della Costituzione Italiana: l’art. 5, che sancisce il principio della unità ed indivisibilità della Repubblica, e l’art. 49, che sancisce il principio della assoluta autonomia delle scelte ideologico-programmatiche dei partiti politici. Le due norme costituzionali sembrano essere antitetiche tra loro: la prima sembra escludere nettamente la possibilità di dare vita ad un movimento indipendentista – atteso che una movimento del genere, per definizione, mette in discussione l’indivisibilità dello Stato -, mentre la seconda, garantendo fermamente una delle libertà poste a presidio e fondamento della democrazia, sembra consentire anche la presenza di un movimento politico che, con mezzi pacifici, rivendichi il diritto all’autodeterminazione ed alla sovranità di una regione.
A questo punto è opportuno esaminare la possibilità di conciliare il rapporto tra le due norme, senza però adagiarsi sulla fin troppo comoda tesi del “parallelismo” fra il limite della assoluta impossibilità di revisione della sovranità territoriale dello Stato Italiano ed il limite della intangibilità della libertà di scelta ideologico-politica (libertà che rappresenta, peraltro, il fondamento del pluralismo posto a presidio di ogni democrazia).
E’ vero che la possibilità di conciliare tra loro le due norme trova un primo positivo riscontro nell’ormai pacifico riconoscimento, da parte del Diritto Internazionale, del diritto di autodeterminazione dei popoli: basterà ricordare, al riguardo, che tale diritto venne proclamato già nell’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966 e venne poi recepito dalla legge n. 881 del 1977. Ma è anche opportuno precisare che la richiamata normativa internazionale riconosce il diritto di autodeterminazione solo alle minoranze oppresse o gravemente discriminate da un governo centrale che non ne rispetti o addirittura non ne tolleri la diversità culturale, linguistica o etnica: solo se sussiste un siffatto presupposto la pretesa indipendentista (e/o secessionista) di una minoranza ottiene il giusto riconoscimento dalla comunità internazionale.
In buona sostanza, dunque, la secessione rappresenterebbe il rimedio estremo (A. Buchanan l’ha definita addirittura l’“ultima spiaggia”) dopo il fallimento “di ogni tentativo di fare cessare, rimanendo parte integrante della struttura statale, comportamenti discriminatori a danno di una parte della popolazione” (così Nicotra Guerrera in “Appunti intorno al rapporto tra partito anti-sistema e conventio ad escludendum”).
D’altra parte, se è vero che il diritto internazionale dà ormai spazio e riconoscimento al diritto di autodeterminazione delle minoranze (sia pure con il limite testé ricordato), è altrettanto vero che sono pochissimi gli ordinamenti statali che riconoscono espressamente tale diritto e che, al contrario, la maggior parte delle carte costituzionali o sanciscono (più o meno esplicitamente) il principio dell’unità nazionale, o nulla dicono al riguardo. E va qui ricordato che, dal canto suo, la Costituzione Italiana – pure sancendo espressamente nella ricordata quinta disposizione il principio della unità e indivisibilità del territorio nazionale – offre poi precisi spunti per giungere a ben diverse conclusioni allorché:
– all’art. 2, riconosce i diritti inviolabili dell’uomo anche come membro del della formazione sociale in cui opera;
– all’art. 6, riconosce meritevoli di tutela le minoranze linguistiche;
– all’art. 18, riconosce ai cittadini il diritto di associarsi liberamente purché non segretamente e purché non perseguano, neppure indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare;
– all’art. 21, riconosce e garantisce la libertà di tutti i cittadini di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione;
– all’art. 49, sancisce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale;
– all’art. 132, 1° comma, riconosce il diritto di fasce di popolazione alla fusione di Regioni esistenti ed alla creazione di nuove Regioni.
In definitiva, la contraddizione tra la disposizione di cui all’art. 5 e le altre sopra richiamate norme sembra essere assolutamente superabile se si considera che alla base della Costituzione Italiana il Legislatore Costituente ha inteso porre due principi fondamentali: libertà e pluralismo. Se si accettano questi principi come fondamento della democrazia, non si può non ammettere la legittimità della presenza, nel sistema, di opposizioni “antisistema” che agiscono, con mezzi pacifici e secondo il metodo democratico, in contrapposizione al sistema stesso e quindi perseguendo fini che possono anche essere incostituzionali, con il proposito di modificare il sistema o il suo modo di funzionare e, talora, anche di rivedere taluni assetti costituzionali, nella consapevolezza tuttavia che ciò dovrà poi necessariamente avvenire con il procedimento di revisione descritto nell’art. 138.
La presenza di movimenti antisistema che si muovono ed agiscono entro questi limiti nel sistema (cioè nel rispetto del metodo democratico di lotta politica sancito dall’art. 49 della Costituzione Italiana) non soltanto è legittima, ma è anche garanzia della dialettica e del confronto che costituiscono il volano per l’evoluzione di qualsiasi democrazia. Orbene, sulla scorta delle superiori considerazioni, un movimento dichiaratamente indipendentista (e/o secessionista) deve ritenersi legittimo se ed in quanto non si proponga di sovvertire l’ordine democratico o le istituzioni, né tanto meno di rovesciare violentemente il governo in carica; se ed in quanto il suo scopo sia quello di escludere dalla sovranità dello Stato una parte del suo territorio e la popolazione che la abita per farne poi un nuovo Stato indipendente dal primo ed a propria volta sovrano nel proprio territorio.
Vero è che, in un passato ormai remoto, in Italia, propagandare un siffatto scopo od organizzare attività associative al fine di propagandarlo veniva considerato atto lesivo del “sentimento nazionale”, ossia della coscienza dell’unità territoriale, sociale e politica dell’Italia, e in quanto tale punito penalmente; ma è altrettanto vero che, con il passare degli anni, il tipo di reato sanzionato dall’art. 271 c.p. si è via via svuotato di contenuto fino ad essere considerato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 87/1966, come un tipico residuato concettuale del nazionalismo fascista: in tale decisione la Corte precisò, tra l’altro, che il sentimento nazionale, “sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità”, con la ovvia conseguenza che la propaganda diretta a deprimerlo non ha (né può avere) finalità illecite e, non perseguendo scopi illeciti, qualsiasi limitazione di essa propaganda contrasterebbe con la libertà garantita dall’art. 21 della Costituzione).
Ma c’è di più. A distanza di trentacinque anni, sostanzialmente recependo il principio espresso da quella sentenza n. 87 del 1966 e le concordi riflessioni svolte dalla dottrina costituzionalista negli anni successivi, la stessa Corte Costituzionale ha, con la sentenza n. 243 del 12 luglio 2001, dichiarato l’incostituzionalità della norma del codice penale che prevede e sanziona il reato di promozione, organizzazione e direzione delle associazioni che si propongono di svolgere o che svolgono attività dirette a distruggere o deprimere il sentimento nazionale: orbene, se non può ritenersi illecita l’attività di propaganda posta in essere dal singolo per deprimere il sentimento nazionale, non può costituire reato neppure la costituzione di una associazione che svolge la stessa attività che è consentita all’individuo.
E c’è ancora di più: nella suddetta più recente sentenza (la n. 243/2001) il giudice delle leggi formula due precisazioni di grande rilievo:
a) l’attività di propaganda e organizzazione svolta dall’associazione non integra gli estremi del reato se non “trasmodi in violenza od in attività che violino altri beni costituzionalmente garantiti fino ad integrare altre figure criminose” (implicitamente, quindi, la Corte riafferma il principio secondo il quale le libertà politiche devono essere esercitate senza abbandonare il metodo democratico di lotta politica di cui all’art. 49 Cost.;
b) la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 271 c. p. non inficia il significato e la portata dei valori di Nazione e di unità nazionale sanciti dalla Costituzione, ma rimane comunque consentita l’attività politica volta a mutare la forma di governo o la stessa Costituzione a condizione, però, che tale attività venga svolta senza metodi violenti e che il mutamento sia attuato con i mezzi previsti dall’ordinamento.
Le sia pure veloci e sintetiche considerazioni ed argomentazioni che precedono inducono inevitabilmente a concludere per la legittimità della costituzione di un movimento politico indipendentista in Italia e dell’eventuale inserimento dello stesso nell’agone elettorale per la determinazione della politica nazionale, a condizione che:
– la costituzione di un siffatto movimento od associazione avvenga nei modi stabiliti dal codice civile;
– che lo scopo e le finalità associative vengano perseguiti con metodi pacifici e nel rispetto delle regole di metodo imposte dall’ordinamento democratico.
Rimane poi da stabilire chi può avviare l’iter procedurale previsto dalla normativa internazionale sopra ricordata e legittimata dalle interpretazioni giurisprudenziali testé ricordate, quando e come. Ma questa è un’altra questione, stavolta di carattere essenzialmente politico: e quindi, apparentemente, più semplice da risolvere sul piano teorico, ma molto difficile da realizzare sul piano pratico perché postula una forte coesione tra i gruppi politici che compongono il Parlamento Siciliano ed una assoluta autonomia degli stessi dalle segreterie dei partiti nazionali.
Renato Sgroi Santagati* è un avvocato catanese da sempre impegnato nello studio della storia della Sicilia e della storia dell’indipendentismo siciliano.
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